Diritto all’oblio, per Google una vittoria di Pirro
Capitalismo delle piattaforme Il diritto all'oblio, cioè la cancellazione ogni cinque anni dei dati raccolti su un singolo utente, era stato voluto inizialmente dalla Spagna e poi accolto dall’intera Ue, grazie all’attivismo dei movimenti sociali e al paziente, sensibile e accorto lavoro di tessitura di studiosi e giuristi, tra i quali va ricordato Stefano Rodotà
Capitalismo delle piattaforme Il diritto all'oblio, cioè la cancellazione ogni cinque anni dei dati raccolti su un singolo utente, era stato voluto inizialmente dalla Spagna e poi accolto dall’intera Ue, grazie all’attivismo dei movimenti sociali e al paziente, sensibile e accorto lavoro di tessitura di studiosi e giuristi, tra i quali va ricordato Stefano Rodotà
È stata considerata una vittoria di Google, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha accolto il ricorso della società americana contro la multa inflitta da un tribunale francese per non avere applicato la normativa del diritto all’oblio su dati di utenti memorizzati nei server del motore di ricerca al di fuori del territorio europeo. Sentenza anacronistica, ha commentato il Garante per la privacy italiano Antonello Soro, in quanto la riservatezza e l’integrità dei dati personali sono un diritto universale che ignora i confini nazionali, o continentali.
La vicenda del ricorso di Google apre tuttavia una ulteriore porta su un continente – quello della gestione economica e politica dei dati – diventato una componente centrale, essenziale nel business dentro e fuori la Rete. Le imprese raccolgono informazioni individuali e collettive, le elaborano, le impacchettano, le vendono al miglior offerente, sia che si tratti di società pubblicitarie che altre imprese dei Big Data. Si può chiamare capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza, ma al di là della terminologia la sentenza europea ha quindi un valore politico altissimo.
Il diritto all’oblio, cioè la cancellazione ogni cinque anni dei dati raccolti su un singolo utente, era stato voluto inizialmente dalla Spagna e poi accolto dall’intera Ue, grazie all’attivismo dei movimenti sociali e al paziente, sensibile e accorto lavoro di tessitura di studiosi e giuristi, tra i quali va ricordato Stefano Rodotà. Il diritto all’oblio era stato voluto perché appunto la privacy non solo era ed è violata sistematicamente dalle piattaforme digitali, ma proprio perché i dati stavano diventando una merce pregiata per fare profitti.
Il motore di ricerca di Larry Page e Sergej Brin è finito sotto accusa più volte. È stato multato per aver violato leggi nazionali e norme europee. Ha dovuto in alcuni paesi del vecchio continente, ma anche in alcuni stati degli Stati uniti, ridimensionare i progetti di accumulo dei propri Big Data. Street View, cioè l’uso di foto e informazioni a scopo promozionale di angoli di città, di paesi, e di paesaggio «postati» dagli utenti, è vietato ad esempio in Germania per violazione della privacy, ritenuta una materia politica e economica «sensibile» proprio perché ibrido di diritto individuale e materia prima economica.
Del rischio politico di finire nel tritatutto delle polemiche e degli j’accuse ne sono consapevoli a Mountain View. Non vogliono certo finire come i «cugini» amati-odiati di Facebook, considerati oramai dopo la vicenda di Cambridge Analytica, la bestia nera della violazione della privacy in tutto il mondo. Per questo sono intervenuti con solerzia, mobilitando eserciti di avvocati e puntando moltissimo su questa sentenza.
La posta in gioco, infatti, è un modello di business e delle sue prospettive. Gratuità di alcuni servizi in cambio della cessione della proprietà dei propri dati personali: è questo il canone dominante, che ha reso Google uno dei Big Five della Rete. Ma quello che preme ora agli strateghi di Mountain View è il futuro, cioè machine learning, predittività, intelligenza artificiale, sistemi esperti nella gestione dei Big Data cioè quell’evoluzione del proprio modello di business a portata di click che fa sì che l’insieme della infrastruttura tecnologica e del software sia piegata non solo a prevedere i comportamenti futuri degli utenti, ma a plasmarli, modificarli, condizionarli a proprio piacimento all’interno di un dispositivo di soft power.
In altri termini, acquisterai una certa merce, aprirai un certo sito internet con la sensazione di aver agito in libertà e con il proprio libero arbitrio, mentre le strategie di «accompagnamento» alla scelta sono state una costante sia quando si è connessi o si è logout dalla Rete. È questo futuro che Google vuol affermare.
C’è però la possibilità che la vittoria di Google si risolva in una vittoria di Pirro. Il motore di ricerca ha fatto leva su un tronfio sovranismo digitale tornato in auge dopo la grande sbronza globalista dei decenni passati. In punta di diritto la Corte di giustizia europea ha ragione quando afferma che ciò che è fuori dall’Unione europea non è sottoposto alle leggi continentali. Ma è difficile tracciare confini per affari che prosperano solo senza frontiere. La privacy è certo un diritto individuale ma funziona solo su base universale. E globale. Lo stesso vale per i Big Data. Così Google può aver vinto una battaglia, ma rischia di perdere la guerra globale del capitalismo della sorveglianza per aver rinunciato a dare un contentino alla vecchia Europa.
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