Diritto alla maternità «a prescindere». Da che cosa?
«Tu, che cosa hai capito?» Questo vorrei chiedere a chi ha notato quel titolo di giorni fa, «Mamme subito, senza distinzione di genere» (il manifesto, Massimo Villone, 8 luglio scorso). […]
«Tu, che cosa hai capito?» Questo vorrei chiedere a chi ha notato quel titolo di giorni fa, «Mamme subito, senza distinzione di genere» (il manifesto, Massimo Villone, 8 luglio scorso). […]
«Tu, che cosa hai capito?» Questo vorrei chiedere a chi ha notato quel titolo di giorni fa, «Mamme subito, senza distinzione di genere» (il manifesto, Massimo Villone, 8 luglio scorso).
Io ho pensato ai due famosi gemelli Romolo e Remo che in effetti hanno trovato una mamma in tempo per salvarsi, l’hanno trovata fuori dal genere umano nella (anche lei famosa) lupa che li ha allattati.
Mi sbagliavo.
L’oscuro significato del titolo s’illumina alla lettura dell’articolo. Si tratta della rivendicazione di un nuovo diritto maschile, alla maternità. Vorrei protestare in nome del buon senso, che però scarseggia e ripiego sull’autorità di Judith Butler che dice: la differenza sessuale è un’occasione per pensare i rapporti tra natura e cultura.
Fino a tempi recenti gli uomini erano il primo sesso di fatto e di diritto, cioè nella realtà e nei codici. Da quando la maschilità ha smesso di essere un titolo sicuro di superiorità, ecco che, nelle teorie filosofiche, la differenza sessuale ha smesso di essere naturale, è diventata culturale e, per finire, relativa.
Spiego il relativo: quando insegnavo una materia altamente opinabile come la pedagogia, alle mie domande le studentesse rispondevano: «dipende». E io: «da che cosa?» E loro: «a seconda»… Se la magistratura (o altra autorità pubblica) prende una qualche decisione in favore della maternità di coppie femminili, ecco che prontamente ci sono coppie maschili che si fanno avanti per reclamare lo stesso trattamento. Mai si erano visti uomini tanto pronti a spartire con le donne il loro destino, mai.
Ma la cosa ha la sua spiegazione, l’articolo in questione ce la dà. «Noi», dice, ci muoviamo «verso un concetto di famiglia che prescinde dalla natura eterosessuale o meno della coppia, e dalla modalità della procreazione stessa: da quella naturale, a quella assistita, all’utero in affitto». Che vuol dire, in pratica, prescindere dall’essere corpo, con quello che comporta nella procreazione per un uomo o per una donna, rispettivamente, come anche: prescindere dal mercato che si è formato intorno alla fecondità femminile e alla gestazione.
A prescindere è la prima parola chiave, la seconda è dipende. Con tutto questo prescindere dalle condizioni materiali, con tutto questo affidarsi ai diritti e alle leggi o alla magistratura, non succederà che alla fin fine la risposta definitiva sia questa: «Lei mi chiede da che cosa dipende? Ma è chiaro, dai soldi».
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