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Direttori, che passione

Direttori, che passioneIl Teatro Argentina di Roma

Teatro Il Piccolo e l’Argentina sono in attesa di nuove nomine ma la politica rischia di prevalere sulla professionalità. Né a Milano né a Roma le ipotesi avanzate guardano dentro alle istituzioni

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 1 luglio 2020

Per una curiosa combinazione del caso (ma forse neanche tanto) i due teatri italiani di maggior nome e prestigio, quelli pubblici delle «due capitali», sono entrambi in cerca di un direttore. Con lievi sfumature formali di differenza: Milano attende un direttore a pieno titolo che si sceglierà le proprie consulenze, Roma un amministratore che dia tasche e gambe ai progetti del primo consulente artistico Giorgio Barberio Corsetti (l’altra, Francesca Corona incaricata per l’India, sembra già procedere in grande autonomia, solo un poco affastellata). A Milano Sergio Escobar dopo più di vent’anni si è risolto alla fine a rinunciare al suo incarico, nei tempi anche brevi di un mese. Del resto doveva misurarsi con la sfiducia portatagli dall’assemblea dei lavoratori del Piccolo Teatro con una lettera pubblica: dopo quindici anni gli era venuta a mancare la solida spalla creativa di Luca Ronconi, poi sostituito da Stefano Massini, presente però più nelle programmazioni delle sale dell’ente che non nelle scelte artistiche vere e proprie. Il cda milanese, riunitosi ieri, deve decidere se avanzare una candidatura oppure procedere a una call. Questa seconda strada è quella scelta dall’omologo organo romano, che si appresta a vararla. Non c’è bisogno di esser tanto nichilisti per non nutrire illusioni sull’effettiva utilità di questa forma di selezione: spesso il meccanismo si rivela «inquinabile», e in ogni caso chi deve decidere può sempre appellarsi alla pochezza delle candidature e dover così ricorrere a una propria scelta insindacabile (è avvenuto pochi mesi fa allo stabile di Genova, tra molta sorpresa e qualche sconcerto).

PRESENTARE una candidatura, possibilmente la migliore, è l’atto civile del cda che sarebbe necessario, ma si sa che al di là di simpatie e idiosincrasie dei suoi membri, questi sono pur sempre dominati dalla politica e dagli schieramenti che li hanno nominati (ricchi a loro volta di simpatie e antipatie del tutto personali). Per di più ufficialmente rappresentano banche, fondazioni e istituzioni non necessariamente attinenti al teatro, anzi piuttosto lontane. Perché se il grido dovrebbe essere ora quello shakespeariano «Un cavallo, un cavallo per il mio teatro» (purché vincente ed esperto, naturalmente), il motto fondamentale dovrebbe suonare «il teatro ai teatranti», non per corporativismo o oscuri interessi, ma semplicemente per il fatto che, come tutti i mestieri, anche amministrare un teatro, o recitarvi una scena, o dare le luci giuste, richiede tecnica e formazione, come tutti gli altri mestieri, impossibili da improvvisare.

Ma il teatro, si sa, è considerato «arte», anche nei suoi sensi più beceri e modaioli. Perfino le danzatrici del Moulin Rouge o del corpo delle Bluebell hanno sempre avuto una formazione tostissima. Da noi no. Abbiamo direttori di teatri pubblici che dirigevano fino al giorno prima compagnie semiamatoriali, e lo stesso ministro Franceschini, che formalmente è l’autorità che ratifica quelle nomine, ha mostrato recentemente di essere più attratto dalla mondanità che dalla professionalità, per i grandi festival internazionali nostrani (o per quel che ne è rimasto) come per i membri di sua nomina nei consigli d’amministrazione. Da un paio di mesi le candidature (spesso «autocandidature») scorrono rigogliose, sui grandi quotidiani nazionali come sul web. Spesso incrociando bizzarramente il tiro: attaccare anche villanamente Roma per favorire una candidatura a Milano, anche se proprio a Roma quel candidato aveva fatto sfracelli e parecchia confusione.

GIRANO, sempre su Milano, proposte curiose: il Piccolo, per quanto si voglia discutere e apprezzare o meno, è la «portaerei» del teatro, e non solo italiano. Bisogna che chi lo diriga abbia contezza di quelle dimensioni, che non sono proprio riconducibili a un semplice curriculum di esperienze vissute. È curioso che nella ridda di voci che si accavallano, a nessuno sia venuto in mente di guardare dentro il teatro. Escobar è sempre stato definito «decisionista», ma è evidente che il lavoro qualcuno lo avrà pur aiutato a predisporlo. Come altri ancora che dal Piccolo si sono allontanati, ma lì si sono formati e affermati alla scuola della mitica Nina Vinchi.

NON È MOLTO diverso, il discorso su Roma. C’è chi all’Argentina ha dato prova di grande capacità «organizzativa» (e non solo) nel periodo più luminoso del teatro romano dopo l’era Ronconi (che non a caso aveva a fianco l’altrettanto mitica Nunzi), quello di Mario Martone, e oggi organizza stagioni di tutto rispetto, artistico oltre che manageriale, in diversi teatri italiani. Ma tant’è, ai politici e ai cda non piacciono quelli che di teatro sanno troppo, li metterebbero in imbarazzo. E la discussione continua sul fatto che il modello di un grande teatro debba essere o meno la vitalità di un centro sociale, facendo torto a entrambi. Un cavallo, un cavallo per il mio teatro.

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