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Director’s Company stile libero e sperimentazione

Director’s Company stile libero e sperimentazione

Maboroshi Nel corso della storia del cinema giapponese, quella del cinema inteso come intrattenimento e dominata per larga parte dalle grandi case di produzione, Nikkatsu, Toho, Shochiku e Toei, sono di tanto in tanto emersi esperimenti produttivi che hanno tentato di sparigliare le carte.

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 6 ottobre 2023

Nel corso della storia del cinema giapponese, quella del cinema inteso come intrattenimento e dominata per larga parte dalle grandi case di produzione, Nikkatsu, Toho, Shochiku e Toei, sono di tanto in tanto emersi esperimenti produttivi che hanno tentato di sparigliare le carte. Uno di questi è stato Director’s Company, una casa di produzione fondata nel 1982 e che per dieci anni, fino alla bancarotta del 1992, diede libertà creativa ad un gruppo di giovani autori, l’età media dei registi fondatori di questa iniziativa era infatti di trentuno anni.
Nel corso di questo 2023, alcune delle opere uscite da questa casa di produzione sono state rimasterizzate e riscoperte, sia nell’arcipelago che al di fuori del Giappone, con proiezioni nei teatri e uscite per l’home video.
I membri fondatori della Director’s Company erano nove, per la maggior parte registi che avevano lavorato, sul finire degli anni settanta, nel cinema softcore (pink, roman porno), come Kiyoshi Kurosawa, Takahashi Banmei, Shinji Somai o Toshiharu Ikeda, o in quello più indipendente come Sogo Ishii, Kazuki Omori o Kazuhiko Hasegawa. Proprio quest’ultimo era il decano del gruppo, e colui che diede il là all’idea di fondare una casa di produzione indipendente, anche grazie al successo del suo The Man Who Stole The Sun (1979), film che ispirò una generazione di nuovi cineasti.

È STATO proprio grazie alla libertà espressiva offerta ai giovani registi dalla Director’s Company che vennero alla luce alcuni dei più significativi lungometraggi prodotti durante il decennio.
Del 1984 è Mermaid Legend, con cui Ikeda mette in scena in un villaggio di pescatori, la vendetta di una donna accusata di aver ucciso il marito. Esempio scintillante di come una storia già raccontata mille volte possa assumere forme e intensità diverse, soprattutto grazie ai trenta minuti finali che sono un delirio visivo ed una masterclass registica.
In qualche modo simile, almeno per la struttura che nell’ultima parte, da thriller si trasforma in cinema gore, è Door. Diretto nel 1988 da Banmei, il film racconta di Yasuko, una casalinga che vive in una palazzina residenziale con suo marito, spesso assente, e suo figlio. Infastidita dalle telefonate pubblicitarie e dall’invadenza dei venditori porta a porta, un giorno la donna sbatte la porta sul dito di uno di questi. L’uomo le giura vendetta e comincia a tormentare Yasuko, in un crescendo che avrà il suo apice in una scena girata virtuosamente all’interno dell’appartamento.

LO STILE e la sperimentazione all’interno del cinema di genere è la qualità che ha forse meglio caratterizzato i film più riusciti prodotti dalla Director’s Company. In questo senso Typhoon Club (1985) di Shinji Somai, autore definitivamente riscoperto già da qualche anno, è forse la punta di diamante di tutta la produzione uscita dal gruppo. Somai, ricalcando un tema ricorrente nel cinema giapponese, le relazioni e la vita scolastica, realizza forse il suo capolavoro ed uno dei film giapponesi più amati degli ultimi quarant’anni.
Fra le altre opere degne di nota uscite da questa singolare esperienza produttiva, che ha permesso a molti giovani autori di dimostrare al grande pubblico il proprio talento, vanno citati almeno The Crazy Family (1984) di Sogo (ora Gakuryu) Ishii (1984) e Evil Dead Trap (1988) ancora di Ikeda.
Le ragioni del fallimento della casa di produzione sono state naturalmente varie e forse strutturali, l’assenza di «veri» produttori e il periodo economico non favorevole sono le prime che vengono di solito citate, assieme alla competizione della televisione e dei videogiochi.

matteo.boscarol@gmail.com

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