Editoriale

Dipendenti pubblici, il linciaggio propedeutico

Vigili a Roma Non sono particolarmente apprezzati. Socialmente, la loro funzione non è del tutto accettata. Quando fanno il loro mestiere, li accusiamo di eccessiva severità; quando non se ne vedono in giro, […]

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 6 gennaio 2015

Non sono particolarmente apprezzati. Socialmente, la loro funzione non è del tutto accettata. Quando fanno il loro mestiere, li accusiamo di eccessiva severità; quando non se ne vedono in giro, ci lamentiamo della loro assenza. Spesso arroganti, a volte aggressivi, quasi sempre indisponenti. Con le dovute eccezioni, è così che i vigili urbani vengono considerati. A Roma, ma anche altrove.

Anche per questa generalizzata antipatia, l’attacco politico-mediatico in corso in questi giorni è diventato imponente. Tanto strombazzato quanto virulento. Infingardi, sabotatori, disertori.

Ma l’eccesso di insulti indiscriminati, di condanne sommarie, questo spettacolarizzato linciaggio sociale non è soltanto sospetto: è volgarmente mistificante. Poche settimane fa ci si era accaniti contro i musicisti del Teatro dell’Opera, da domani potremmo scagliarci contro le maestre comunali, poi contro i giardinieri, gli impiegati dell’anagrafe, i geometri, gli assistenti sociali, i contabili, gli uscieri, i commessi e i bidelli. Contro l’intero pubblico impiego: una sommatoria di privilegiati scansafatiche e nullafacenti. Che nel nostro immaginario rappresenta non solo l’inefficienza dello Stato, ma anche l’inutilità di continuare a farlo funzionare.

Allora sarà molto più facile cacciarli via tutti, i dipendenti pubblici. Privatizzare o esternalizzare amministrazioni, apparati e funzioni, quel che ancora resta dell’intelaiatura pubblica. Il parlamento si appresta ad approvare una riforma che si annuncia esattamente in sintonia con tali obiettivi. E quale miglior pretesto, qualche formidabile viatico per avviarsi al definitivo smantellamento, se non la scellerata epidemia del gelido capodanno romano? Verrebbe da congratularsi per il geometrico tempismo con cui i vigili urbani si sono pateticamente ammalati. Una protesta tanto furba quanto idiota.

In ogni caso, smettiamola di scandalizzarci: si può essere d’accordo o meno, ma in quella renitenza collettiva c’era pur sempre una ragione, per quanto malintesa o ingannevole. Che ha generato una protesta sindacale (come ci ha sarcasticamente spiegato Francesco Storace e come lo stesso Beppe Grillo continua a ripetere). Una protesta contro una residuale amministrazione di centrosinistra che impone le sue scelte economiche perché così le dicono di fare da Palazzo Chigi o dalla Banca centrale europea, indisponibile ad ascoltare né i vigili né nessun altro, sindacati, movimenti, associazioni. Cosa dovremmo augurarci? Che ci si rassegni a ricevere stipendi sensibilmente decurtati o che si lotti per difenderli, possibilmente in forme e modi più intelligenti e meno dannosi?

A Roma stiamo assistendo a una manovra economica esplicitamente liberista, che non si risparmia per zelo e ortodossia e a volte assume connotati perfino autoritari. Con una pressione fiscale tra le più alte d’Italia, con una progressiva riduzione dei servizi e con rette e tariffe aumentate per quelli che restano disponibili, con una cospicua diminuzione delle retribuzioni dei dipendenti, con un ambizioso piano di alienazione del patrimonio pubblico e di svendita di quote societarie delle aziende municipali.

Mentre resta precaria e in alcuni casi disastrosa la manutenzione urbana, alquanto manchevole l’offerta dei servizi sociali, piuttosto deficitaria la raccolta dei rifiuti, largamente insufficiente il trasporto pubblico. Sarà poco più che simbolico, ma è davvero malinconico veder cancellate le linee di quegli autobus che il sindaco Petroselli riuscì a portare fin nelle più sperdute periferie.

Tutta colpa della mafia capitale? Della corruzione e della fellonia di politici e amministratori? Dei cooperanti infedeli e dei fascisti lasciati in eredità da Alemanno? O non piuttosto dell’accettazione supina dei vincoli finanziari, dei piani di rientro, dei patti di stabilità? O della mancanza di un sussulto politico in Campidoglio, che sia di maggioranza o di opposizione? O del perbenismo accigliato del sindaco Marino e della sua corte di infermieri? O infine dell’assenza di una sinistra, sociale o politica che sia, che riaccenda una battaglia sul lavoro, sul territorio, sui diritti, sulla cultura, insomma sul futuro di una città infelicemente in declino?

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