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Diotallevi sul «Corriere» sbaglia sul nuovo presidente

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Criticare il discorso alle Camere del nuovo presidente della Repubblica non è un reato di lesa maestà. Anzi: personalmente diffido del coro unanimistico dei consensi. Tuttavia, non ho compreso il […]

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 7 febbraio 2015
Franco Monaco* deputato Pd

Criticare il discorso alle Camere del nuovo presidente della Repubblica non è un reato di lesa maestà. Anzi: personalmente diffido del coro unanimistico dei consensi. Tuttavia, non ho compreso il senso dei rilievi mossi da Luca Diotallevi sul Corriere della sera.

Il primo: un primato della politica che mortificherebbe la sussidiarietà orizzontale e verticale. Principio caro all’insegnamento sociale della Chiesa e, segnatamente, a suoi documenti recenti asseritamente d’ispirazione liberale (?). In verità, un po’ tutti abbiamo avuto l’impressione contraria. Penso all’enfasi sul protagonismo e sull’autonomia della formazioni sociali ex art. 2 della Costituzione e alla tesi, che percorre tutto il discorso, secondo la quale il patto costituzionale deve vivere, attingere e nutrirsi dentro una trama di relazioni comunitarie.

Il secondo rilievo: una riserva sull’accento posto sulla funzione arbitrale e di garanzia del presidente. Essa sta scritta a chiare lettere nella Carta vigente. La terzietà del capo dello Stato è altresì prescritta dall’esigenza di ripristinare la «normalità costituzionale» auspicata dallo stesso Napolitano, dopo una stagione che lo ha sospinto verso una necessitata supplenza e… a qualcosa di più.

Tale compito arbitrale non esclude affatto il positivo accompagnamento del processo riformatore espressamente incoraggiato da Mattarella. Solo raccomanda severa vigilanza sulla divisione dei poteri; la cura, insieme, per il reciproco rispetto e la leale cooperazione tra loro. Un arbitro imparziale che presiede alle regole – applicarle significa anche sanzionare le violazioni – ma non agnostico in quanto dotato di una bussola sicura e operante anche nel tempo di audaci riforme: i principi supremi e i diritti fondamentali non suscettibili di revisione.

Terzo: l’asserita incompiutezza del catalogo dei diritti. Il neo presidente non ha mancato di menzionali, naturalmente non in tutte e singole le loro innumerevoli determinazioni. Lamentare questa o quella lacuna è un fuor d’opera. Non solo perché largamente impliciti nella visione d’insieme, ma perché, al contrario, ricca è stata l’esemplificazione di «volti e storie» titolari di tali diritti. In capo a persone e comunità.

Ma, di tutti, il rilievo più sorprendente è quello – il quarto – di avere prospettato un «programma politico». Nessuno deve essersene accorto, visto che da tutte le parti politiche sono fioccati apprezzamenti. A significare semmai un timbro di terzietà. A meno che, impropriamente, per programma politico si intenda un orientamento di politica costituzionale e cioè la giusta convinzione che, pur dentro le naturali differenze di indirizzo politico-programmatico in capo alle parti, la Costituzione e la sua tavola dei valori non sono mute e indifferenti.

Esse additano traguardi di civiltà che possono essere perseguiti attraverso strade e indirizzi politici diversi, ma che impegnano tutta intera la comunità politica e i suoi attori a rimuovere gli ostacoli che inibiscono l’effettivo e universale esercizio dei diritti di cittadinanza (ex art. 3 Cost).

Infine, la critica alla deriva centrista del Pd quale «partito della nazione» privo di plausibili alternative e quindi la paventata regressione rispetto all’approdo di un bipolarismo competitivo. Preoccupazione fondata, ma che non vedo come possa essere imputata al nuovo inquilino del Quirinale.

In breve, mi assale il sospetto che in taluni zelanti cultori delle riforme della Costituzione alberghi l’auspicio che si possano mettere in parentesi l’ispirazione e i principi scolpiti nella sua prima parte e che, del messaggio di Mattarella, essi non abbiano apprezzato l’accento posto sul dovere di viverla e applicarla.

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