Se con Ignazio La Russa, al Senato, diventa presidente un rappresentante della storia del postfascismo novecentesco, già dirigente del Movimento sociale italiano ed erede della storia che negli anni della Repubblica ha tenuto accesa la Fiamma, alla Camera si siede sulla scranno più alto un leghista che parla la lingua della destra estrema di questi anni.

Una corrente che ricicla i leit motiv di quell’area politico-culturale dentro la temperie di questo millennio e che rielabora in chiave post-moderna la sacra triade di Dio-Patria-Famiglia. Si tratta del leghista veronese Lorenzo Fontana.

Nato nel 1980, Fontana fa politica fin da giovane nel partito che fu di Bossi e che con Matteo Salvini ha conosciuto una maggiore contaminazione con le galassie integraliste.

Ha iniziato come consigliere comunale nella sua città. Nel 2009 e nel 2014 è stato eletto con la Lega al parlamento europeo. Nel 2018 è sbarcato alla Camera.

A più riprese ha fatto capire di avere imparato la lezione reazionaria del suo mondo: l’ordine tradizionale sarebbe minacciato dall’ideologia gender, dalle migrazioni e dalla globalizzazione. Cui bisogna rispondere restaurando i concetti di famiglia tradizionale dell’ordine patriarcale e, ça va sans dire, di nazione.

Per questo in La Culla vuota della civiltà. All’origine della crisi, volume che ha firmato assieme all’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, Fontana fa risalire la crisi dell’Occidente ai «novelli fautori delle unioni creative ispirati da una visione del mondo che si dipinge come ‘moderna’ ma che in realtà è ostile all’uomo».

Fontana si è anche prodotto in una personalissima rielaborazione in chiave sovranista anti-sbarchi del motto cristiano per eccellenza. «La nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo – ha affermato l’aspirante presidente della Camera – ‘Ama il prossimo tuo ’: ovvero in tua prossimità. E per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri».

A Verona, dove è stato vicesindaco, nel 2016 ha organizzato il festival integralista ProVita. Di fronte ad arene come queste l’ala più oltranzista dei repubblicani e della destra statunitense, quella che poi avrebbe seguito Donald Trump fino a Capitol Hill, si incrocia con la passione per l’autarchia putiniana.

«Se trent’anni fa la Russia, sotto il giogo comunista, materialista e internazionalista, era ciò che più lontano si possa immaginare dalle idee identitarie e di difesa della famiglia e della tradizione, oggi è il riferimento per chi crede in un modello identitario di società», sanciva. In quell’occasione parlava a Alexey Komov, presidente onorario dell’associazione Lombardia–Russia e Dmitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa vicino al Cremlino.

Nello stesso anno ha inviato il suo saluto al congresso degli «amici» del partito neonazista greco Alba Dorata.

La sua passione per il putinismo, che lo accomuna ancora una volta alle estreme destre europee, potrebbe costituire un problema dell’ultimo secondo per la sua elezione annunciata alla presidenza di Montecitorio, anche perché Giorgia Meloni in questi mesi ha fatto di tutto per far apparire compatibile con la collocazione atlantica del paese.