In una Maremma che non è «né mare né terra», l’esordiente Filippo Cerri colloca le epiche vicende di un manipolo di leggendari rubagalline e di altrettanti sceriffi senza stellette che intrecciandosi vanno a comporre il suo Di macchia e di morte. Ballata degli ultimi briganti (Effequ, pp. 360, euro 18), metà romanzo storico metà romanzo di avventure. Protagonista di questa canzone di gesta in prosa è un bandito che, come ogni eroe, è giovane e bello e che nella fattispecie risponde all’impegnativo nome di Arturo Bianciardi. Arturo avrà la sua iniziazione quando fredderà a bruciapelo il compare di bevute Carlomagno per unirsi alla banda dell’impassibile Bastiani, dove troverà anche il Bambinello, l’Innamorato e il Corinzio.

MA OLTRE ALLE RAZZIE, non disdegnerà incursioni di tutt’altra natura – quella amorosa – con una Maddalena capace di farlo sentire non più «figlio di nessuno o dell’ultima paura, ma un uomo tra gli uomini, in una terra fatta su misura per accogliere la felicità».

Una canzone, si diceva, ma anche un vero e proprio ciclo: Arturo incontrerà sul suo cammino anche altri malviventi, il vendicativo Ettore Manfredi e l’imprendibile Bagatto per esempio, e tutti avranno il loro bravo momento di gloria per poi patire la conseguente disfatta, avendo cura di riservarsi, tuttavia, lo spazio quantomeno di una ballata all’interno del libro.
Doppietta in spalla e cartucciera a tracolla, infrascati dentro una selva di spelonche e anfratti, in Di macchia e di morte dinastie di rinnegati affrontano le sparute guardie chiamate a difendere controvoglia la nuova Italia unificata, in quest’eterno nascondino che avrà termine solo col sopraggiungere del Novecento.

Il racconto procede per stacchi e per primi piani in cui, come in un film di Sergio Leone, scrutiamo i segni sui volti e sugli occhi dei duellanti, carichi di attesa e consci che quello che doveva succedere è già successo e ci si può far poco oppure succederà e anche in quel caso ormai è troppo tardi. Ma se la cinepresa di Leone sapeva cogliere questa irreversibilità senza indulgenze, Cerri non si accontenta del fermo immagine e «morriconeggia» con un certo talento descrittivo e una lingua molto figurativa.

QUESTE SEQUENZE si affastellano e sedimentano finendo per montare assieme un’ideale storia romanzesca di un tratto del paese e del nostro dimenticato Ottocento, in una ricostruzione accuratissima che assume i contorni e la dimensione di una saga mitologica dove i veri eroi sembrano proprio gli antieroi, questi scalcinati briganti in cosciali di capra e panciotti di fustagno che vivono secondo codici tutti loro, insofferenti a greche ed ermellini.
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addove gli spaghetti western cinematografici avevano americanizzato i deserti andalusi, Cerri rende frontiera la Maremma, ce la fa riscoprire terra malarica di pistoleri e figure curve su campi ingrati, fra bestie recalcitranti, volpi e beccacce, e carabinieri che al loro passaggio oscurano il sole.