Pezzetti. Scaglie. Frammenti visivi da un quotidiano femminile plurale, segnato dalla contemporaneità che ci è franata addosso. Una miriade di istanti privati, intimi, apparentemente ordinari, e per questo politicamente luminescenti, anti-oscuramento e anti-cancellazione, e contro qualunque rediviva forma di nostra relegazione derivata da Covid-19.

Ma come partorire una narrazione comune e inoppugnabile in questo frangente storico così arduo, dove cercare i bandoli fra cinquemila videodiari girati da più di cinquecento donne italiane di svariate età, con contesti sociali e mestieri differenti, tra marzo e giugno 2020?

«È stata una fatica immensa, ma il nostro collettivo di lavoratrici dello spettacolo non si è perso: malgrado tutti i problemi e le incombenze di ognuna, abbiamo posto il film come primo obiettivo, e ci siamo anche divertite».
Così il progetto Tutte a casa – del quale avevamo raccontato su queste pagine lo scorso luglio nell’ora nel crowdfunding – è adesso un documentario diretto da Nina Baratta Cristina D’Eredità Eleonora Marino con Flavia De Strasser Maria Antonia Fama Rosa Ferro Elisa Flaminia Inno Désirée Marianini Beatrice Miano Viola Piccininni Elettra Pizzi Francesca Zanni (nel collettivo anche Federica Alderighi Giovanna Cané Maria Raffaella De Donato Elisabetta Galgani), e andrà in onda su La7d l’8 marzo alle 21.30.

Si tratta dunque di squarci autogestiti e scavati con le unghie. Sangue del nostro sangue nervi dei nostri nervi risuonava in un canto della Resistenza, che ritorna nel film. Mentre sulle nostre vite di donne degli anni ‘20 del XXI secolo – ancora gravate da un coacervo ingente di ostacoli e diseguaglianze di genere – pandemia e quarantena hanno grandinato ancora più aspramente.

Così un appello lanciato sui social nel marzo 2020 dal collettivo Tutte a casa ha convogliato scampoli personali del vissuto di ognuna di queste donne, e quel che ha sentito di affidare alle registe – perché del germogliare di fiducia si è trattato – nonché al mondo: invito all’autonarrazione come richiamo a non delegare mai il racconto di sé pur nell’infuriare della tormenta, a specchiarsi nelle proprie tracce riprendendo – da filmmaker della propria vita – i propri spazi i propri oggetti, i figli, la propria madre, anche dal balcone o di ritorno dall’ospedale, il proprio lavoro – sia pur mutato o stravolto, quando ancora resiste… – contemplando se stesse, i propri inenarrabili pesi, e il desiderio dello sguardo dell’altra che quello sguardo-racconto accoglierà (come scriveva Adriana Cavarero colloquiando sulle pagine con Karen Blixen).

In tutto questo emerge prepotente lo scenario interno obbligato. «L’incipit sulle case vuote descritte in voce over dalle donne che le abitano è una dichiarazione d’intenti: il nostro voler allacciare dei fili da una narrazione all’altra» – così Cristina D’Eredità regista e montatrice del film, che durante il lavoro rileggeva Gli anni di Annie Ernaux: la intervistai a luglio e con lei si è intessuto un dialogo che continua.

Casa dunque. Come luogo della contiguità forzata almeno in quelli che sono i nostri più comuni appartamenti, dove è quanto mai ostico ritagliarsi solitudine e silenzi. Una madre allatta il suo bambino mentre il suo canto si diffonde ad altre intente nel cullare, una donna tenta l’impresa di mettersi a pulire prima che il suo piccolo si svegli, una figlia tinge i capelli alla madre colpita da ictus e insieme si riflettono nello specchio del bagno, mentre una donna si taglia i capelli da sola: il corpo sottoposto a una kermesse di esercizi fisici nella scatoletta degli spazi domestici, chiede una naturalità prima occultata sotto una coltre aspettative sociali di genere; una confida che ha ritrovato il suo rossetto perso tra i recessi di chissà dove.

E se la casa è fantasma reale di una nuova segregazione – pensiamo alla dissacrante casalinghitudine di Jeanne Dielman nel film di Chantal Akerman – del far pagare soprattutto alle donne i guasti pre e post-pandemia, è però anche eco sacra dei microcosmi delle antenate che di quella si nutrivano come fosse uno scrigno infinito – vedi Emily Dickinson – di chi svolge professionalmente o no i mille lavori di cura, è spazio simbolico dell’interiorità, del dimorare in noi stesse di Luce Irigaray.

Pure, i dati sulla violenza domestica hanno rivelato fin da quei primi mesi di quarantena come quelle mura lungi dall’essere un posto sicuro, diventino per tante uno scenario di guerra colpevolmente rimosso dalla società (la videocamera si sofferma su una “casa di bambola”) : è qui che una donna migrante – protetta dall’anonimato della mascherina – trova le parole per dire gli abusi fisici e psicologici subiti dal compagno davanti alla figlia minorenne, la sua fuga quando l’unica amica che sa avverte un centro antiviolenza.

Altrove la casa è rappresentazione fisica della perniciosa commistione che il lavoro agile o smart ma di certo assai poco women friendly ha prodotto, della non-distanza tra il mondo privato da quello lavorativo, ridotto a pc e scrivania: cinque passi invece che 350 km a settimana, racconta una donna in voce over… mentre una giornalista, pulendo le verdure, fa una chiamata di lavoro tra le urla dei suoi bambini, o un’attrice, per non impazzire, rivendica il diritto di lasciare i figli ogni tanto davanti alla tv. E si scostano i fragili paraventi e i nostri interni così tartassati diventano il vero spazio pubblico. Ancora il film è ricchissimo e non manca di confrontarsi con uno humor dolente col vissuto delle docenti alle prese con la famigerata Dad, con le lavoratrici dello spettacolo, o con una cam girl che immagina a guardarla uomini inebetiti nascosti negli scantinati per non farsi vedere dalle compagne.

E da lì il movimento dello sguardo punta verso l’esterno, tra strade svuotate e la presenza di donne il cui lavoro deve continuare fuori casa: da una professionista della sanità che sfata la retorica del tutto andrà bene, con racconti di angoscia e di cura relazionale infinita, alle commesse del supermercato (una fa un significativo racconto di cosa possa significare in quei giorni trovarsi alla cassa, mentre il marito cerca in tutti i modi di sabotare il suo video..), alle tassiste, alle edicolanti, alle netturbine, alle lavoratrici delle carceri, alle autrici Rai, alle rider, alle autiste delle ambulanze.. («Volevamo essere più trasversali possibile nel fotografare il lavoro delle donne in questo frangente»).

Tutto questo mentre la timeline del montaggio trasmuta il qui e ora dei videodiari in Memorie digitali da un tempo sospeso (il sottotitolo del film), e mentre digitale si fa parola decisiva perché stavolta senza la tecnologia a distanza il film non sarebbe stato possibile. D’Eredità mi racconta che durante il montaggio il collettivo ha guardato tantissimi filmati dell’Aamod, Archivio del Movimento Operaio e Democratico, sulle lotte femministe degli anni ‘70. Ma quando le chiedo perché hanno scelto di non inserire materiali di repertorio, mi risponde: «L’archivio siamo noi».

Allora – proprio adesso che i corpi non possono ricevere energia gli uni dagli altri, mentre gli scenari pandemici sono già altri, e mentre la piazza è ancora apparentemente interdetta – la sfida è far brillare la visione a lungo raggio e – come sottolinea una delle donne – andare oltre quei frammenti ciechi di stipiti e di mobili che ciascuna si ritrova davanti in casa per aprirsi alla vista dalla “terrazza”: sia sul cielo sul mare, su un campo di girasoli, su un fiore piantato all’inizio della I quarantena, su montagne innevate dove si rifugiarono le partigiane, su un palazzo dove nell’anomalo 25 aprile 2020 si proietta Roma città aperta… (mentre il titolo omaggia Comencini).

Ancora adolescenti in primissimo piano cercano vie altre dai selfie e dalla loro reclusione lontana dalle amiche, frammenti di un discorso di genere in formazione e il toccante racconto di una giovane donna cui il virus ha portato via il padre, che lo cerca sulla sua stessa pelle nel tatuaggio col nomignolo che lui le dava o negli echi fisici del corpo paterno.

In questo tralucere di piani e di tempi si esce dalla visione incorporea da pochi secondi di lettura dei social, che ci si libra oltre “la coercizione imperdonabile” del non poterci toccare, dalla distonia fra quello che eravamo e che nonostante e forse anche grazie a tutto questo, potremo essere.