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Scrittori americani "Notizie dall'interno", un memoir di Paul Auster dedicato alla geografia mentale della sua infanzia

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 5 gennaio 2014

Due anni prima che Paul Auster nascesse, nel 1947, moriva il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosvelt, in carica per tre mandati, che sarebbe stato ricordato per la sua promozione di uno stato assistenziale finalizzato a ridurre il peso delle diseguaglianze. Secondo alcuni sociologi americani, tra i quali Richard Sennet e Christopher Lasch, questo fu il clima ideale perché le persone potessero finalmente rivolgere le proprie attenzioni a se stesse, ma fu anche il contesto in cui venne avviato quel processo di privatizzazione dell’esistenza che sarebbe poi sfociato nella cultura del narcisimo, tutt’ora in voga.

Affrancarsi dal giudizio morale, nella lettura di questa sindrome dilagante, fu il passo che alcuni sociologi illuminati mutuarono dalla lezione della psicoanalisi, grazie alla quale – per esempio – Lasch corresse l’equivoco sulla vera origine del culto di sé e, sviluppando un saggio di Freud del 1914, precisò come esso nasca non dalla affermazione della propria personalità ma dal suo «collasso», non da una eccessiva autostima bensì da un «sentimento di mancanza di autenticità e di vuoto interiore».

Ricapitolare queste considerazioni può tornare utile per rendere più facilmente tollerabile la lettura di Notizie dall’interno (traduzione di Monica Pareschi, pp. 304, euro 19,50) il libro che Paul Auster ha scritto a un anno esatto da quello che aveva dedicato al suo corpo, Diario d’inverno, dove si era ripromesso di stendere una sorta di «catalogo dei dati sensoriali», auscultando le sue funzioni fisiche fino a elaborare una propria «fenomenologia del respiro».

Animato dallo stesso spirito, Auster si è poi disposto a inventariare i suoi movimenti mentali, esplorando la «geografia interna della sua infanzia» con l’intento di non varcare «il confine dei dodici anni», ma lasciandosi poi prendere la mano e spingendo la stesura di questo memoir oltre la soglia dei venti. Ciò che, a suo dire, lo ha motivato è la consapevolezza della propria mancanza di eccezionalità, il suo essere one of us: da qui pare abbia derivato la chance di proporre la sua vita come del tutto paradigmatica. Ma un’altra singolare constatazione, seminata nella parte finale del libro, sembra averlo incoraggiato al compito: Auster dice, infatti, di non conoscere nessun altro la cui vita sia meno documentata della sua.

L’orribile lacuna sarebbe stata causata dai numerosi traslochi dei suoi oggetti e delle fotografie che lo ritraggono, traslochi dovuti alla irrequietezza della madre, che essendosi risposata e avendo poi cercato fortuna nel mercato immobiliare californiano, cambiò casa mediamente ogni diciotto mesi, disperdendo tutto ciò che si prestava a documentare l’infanzia di Auster.

Nella appendice del volume infatti, non compaiono le foto di famiglia, bensì immagini a commento dei passaggi del libro, i quali a loro volta vengono ripetuti a mo’ di didascalia, con un procedimento completamente diverso, per esempio, da quello usato da Sebald, che inserisce le immagini mute nel testo, come evidenze in qualche modo dotate di una loro autonomia.

Cruciale, poi, la scelta stilistica di Paul Auster, che anche in questo libro – come già nel precedente – ricorre alla seconda persona per rivolgersi a se stesso, una scelta che potenzia ulteriormente la autoreferenzialità del testo, dando allo scandaglio dei ricordi dell’autore un carattere dialogicamente ventriloquo.

Il proprio Io viene dunque interpellato rivolgendoglisi con il tu, e non poche volte Auster gli chiede benevolmente conto del suo operato, avanzando illazioni che figurerebbero bene in un prontuario per giovani marmotte: per esempio quando dopo essersi dilungato sul fatto di avere smontato «pezzo dopo pezzo» la radio di famiglia (quale originale misfatto!) – l’autore chiede a se stesso: «Eri arrabbiato con i tuoi genitori? Ti stavi vendicando per qualche torto che credevi ti avessero fatto, o eri solo in preda a quello stato di irascibilità e ribellione che a volte si impossessa dei bambini?»

E più avanti – quando ormai il memoir consiste delle lettere che la prima moglie, la scrittrice Lydia Davis, gli ha restituito perché vagliasse la opportunità di donarle a una bibloteca pubblica, lettere puntualmente riversate nel libro a testimonianza dei pensieri che attraversavano la sua giovinezza – Auster si interroga in una nota sul perché della sua confessione di essere andato a letto, una volta, con una fanciulla incontrata a Parigi: «Trovo sconcertante aver condiviso con la persona che consideravi la tua ragazza il racconto dell’avventura con una sconosciuta, tanto più che il tono cordiale di tutta la lettera non lascia certo immaginare che all’epoca ci fosse qualche dissapore tra voi due.» Naturalmente, è sempre a se stesso che Auster parla, del tutto indifferente a qualsivoglia mediazione con il supposto interesse del pubblico, cui pure intende rivolgersi.

Nella ricognizione della sua vita non c’è momento che non gli appia degno di nota, ma fra quelli più memorabili sta, sicuramente, l’attimo in cui, all’età di sei anni, prese coscienza di una sua voce interna e della sua capacità di formulare un pensiero, passando dal limitarsi a esistere al sapere di esistere. Questa sua attenzione per gli stati di coscienza, con la relativa perdita di consapevolezza di sé che a volte lo assaliva, e la predisposizione a scomparire dalla propria autopercezione costituisce uno dei temi ricorrenti dei suoi romanzi, i cui personaggi spesso ricalcano certe sue ossessioni, benché Auster sia uno di quegli scrittori che pretende per i suoi personaggi una autonomia di movimento indipendente dalla sua volontà. Peraltro è anche uno di quei molti autori che pur avendo riversato stralci della sua autobiografia in tanti libri non concepiti per diventare dei memoir – ad esempio Il taccuino rosso, o La stanza chiusa, o L’invenzione della solitudine, o Sbarcare il lunario – pensa che conoscere le vicende della sua vita vera non aiuti a comprendere meglio le sue opere di finzione.

Qualche soccorso potrebbe venire tuttavia al lettore da una messa a fuoco della personalità del padre, che mentre non si vergognava di portare con sé il piccolo Auster quando andava a riscuotere gli affitti dei suoi appartamenti nei bassifondi di Newark e di Jersey City, popolati di neri poveri e dannati, tentava invece di occultare la sua esenzione dal servizio militare, ottenuta peraltro grazie al proprio lavoro nel settore dei cavi elettrici, un lavoro ritenuto essenziale dal governo per servire lo sforze bellico. Il colpevole vissuto di questa mancata partecipazione alla guerra, o – all’opposto – l’orgoglio per avere combattuto, è del resto qualcosa di così connotante per l’identità dell’americano medio che, anche di recente, un autore spregiudicato come George Saunders se ne è servito per alimentare la sua ironia nel bellissimo racconto titolato «Casa», il cui protagonista è un reduce dal fronte di una imprecisata guerra, al cospetto del quale chiunque, indipendentemente dalla simpatia o dalla ostilità che prova, sente di dover dire, innanzi tutto, «Grazie per avere servito la patria».

Ai tempi dell’infanzia di Auster la personalità che aveva lasciato più tracce nei ricordi del suo vicinato era quella di Thomas Edison, presso il laboratorio del quale, a West Orange, aveva lavorato anche il padre dell’autore, non oltre i pochi giorni che a Edison erano occorsi per scoprire che il signor Auster era ebreo e dunque cacciarlo. Per quanto risaputamente antisemita, quello scienziato aveva comunque lasciato dietro di sé un alone di leggenda, che bastò al giovane Auster per inorgoglirsi quando seppe che il barbiere presso cui si tagliava i capelli era lo stesso che aveva servito anche Edison.

Il barbiere, del resto, doveva godere di una sua speciale autorità nei quartieri del ceto medio basso americano, e resta nei ricordi di autori, oggi avanti negli anni, come una figura emblematica. Non a caso, l’obiettivo che in Cosmopolis DeLillo assegna al suo personaggio miliardario è quello di farsi largo nel traffico di Manhattan per raggiungere la modesta bottega del barbiere che un giorno aveva servito suo padre, e assicurarsi che sia proprio lui a accorciargli i capelli. Quanto a Auster, recuperare ogni minimo e insignificante (almeno per noi) dettaglio dei suoi ricordi sembra quasi una necessità scaramantica, come se il passato, laddove venisse riportato in modo incompleto o peggio distorto, potesse ritorcerglisi contro. Fra gli elementi più significativi della sua formazione, due film sembrano avere contato più di tanti libri e altrettanti fatti: Radiazioni BX: distruzione uomo, cui attribuisce una svolta esistenziale «di natura filosofica metafisica» (ventuno pagine dedicate alla sua descrizione) e Io sono un evaso, altro «terremoto cinematografico» (trentadue pagine dedicate al racconto del film: editor, dove sei?). Al confronto, ciò che succedeva nel mondo durante la sua infanzia o l’epidemia di polio scoppiata nella sua stessa città nel 1952, vengono trattati come incidenti di percorso ai quali dedicare qualche righetta priva di autentico pathos.

È curioso che come esempio di autore incapace di distanziarsi dal suo ombelico venga sempre citato Philip Roth, che se non altro ha il buon gusto di mentire anche quando parla di sé e – tanto per restare in tema –– alla Newark devastata dalla poliomielite nel 1944 ha dedicato il suo ultimo romanzo, Nemesi.

Eppure qualche barlume di impegno deve essere passato anche per gli intenti di Paul Auster, che pensò bene di andare a raggiungere l’esercito israeliano durante la guerra dei Sei giorni – «perché a quell’epoca Israele non era un paese problematico» – (!) ma militò anche per il disarmo nucleare, e un po’ confuso su quale fosse la parte dalla quale stare, alla fin fine solidarizzò con gli studenti della Columbia University alla fine degli ani ’60. Ma per la stragrande maggior parte del suo tempo, lo scrittore americano registrava l’altalernarsi dei suoi umori giovanili, si esercitava sui poeti francesi da tradurre, scriveva l’embrione di un romanzo e mandava lettere alla sua futura moglie, nell’ultima delle quali annotava, ventenne, una considerazione cui – stante la mancanza di una nota a smentirla – Auster sembra aderire ancora: «Secondo me il problema del mondo è prima di tutto un problema di identità personale, e la soluzione si può trovare soltanto cominciando dal di dentro per poi… arrivare all’esterno». Si direbbe che l’autore sia ben oltre la metà dell’opera, sempre che arrivare «all’esterno» lo interessi ancora.

 

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