Quello dalla pellicola al digitale, non è un passaggio che è cominciato l’anno scorso, né che si consumerà entro il 2014. Ma è un passaggio «epocale» irreversibilmente in atto – il 20 dicembre, la Technicolor ha annunciato la chiusura della sua sede di Glendale, in California, dove stampava in 65mm e 70mm Imax (la leggendaria sede romana della Technicolor non stampa più pellicola dalla fine del 2011, lo stesso vale per Londra e Madrid). Infatti, la compagnia che ha costruito la sua fortuna sulla celluloide è così ansiosa di svincolare la sua immagine dal «passato» che ha un nuovo logo da cui sono scomparsi rulli e bobine: è fatto di barre colorate. Molto digital. Quattro giorni fa, sul NYTimes, suonava il campanello d’allarme da un noto multiplex indipendente di Lake Placid, a nord di New York: rischiano la chiusura perché non hanno i soldi per convertire le cabine delle loro quattro sale e i film nuovi oggi sono solo in supporto digitale. Si tratta di una storia complicata, fatta di molti aspetti, di perdite gravi ma, francamente, anche piena di promesse. Ci piacerebbe esplorarla sotto diversi punti di vista. Per cominciare abbiamo scelto di parlare con il geniale architetto della programmazione di repertorio del Film Forum di New York, Bruce Goldstein, instancabile curatore di magnifiche, seguitissime, retrospettive (è il migliore qui in Usa), per vedere come ha affrontato il passaggio e come lo sta vivendo il suo pubblico.

Circa 2 anni fa, quando stavamo lavorando su una retrospettiva molto difficile da mettere insieme usando solo la pellicola, mi dicevi che eri contrario a qualsiasi tipo di proiezione digitale. Cosa è cambiato?

Ho capito che oggi non può più essere così schizzinoso. Certo, bisogna mantenere degli standard molto precisi. Per anni, per esempio, abbiamo usato molto il 16mm come alternativa al 35mm. Con grossi problemi perché non avevamo i proiettori che permettevano i cambi di rullo in macchina e quindi, per non tagliare le code, tra un rullo e l’altro avevamo degli intervalli di nero. Al pubblico non importava, li avvisavamo in anticipo, prima della proiezione. Oggi abbiamo i proiettori Kinoton ad uso doppio, 16mm/35mm, quindi possiamo fare il cambio automatico. Ma una copia in 16mm è spesso inferiore a un Dcp…. Nella retrospettiva dedicata a Barbara Stanwyck, per esempio il Dcp di No Man of Her Own era così bello che mi sono arrivate delle lettere di complimenti. Invece il doppio programma in 16mm di The Fury e Annie Oakley, due film importanti, è stato un po’ una delusione, perché le copie erano danneggiate. Uno degli equivoci piu grossi, però, è che uno debba introdurre il digitale ed eliminare la proiezione in pellicola. Un cinema come il nostro non potrebbe mai fare così. Una retrospettiva di quaranta film, dedicata e Stanwyck, fatta tutta in digitale sarebbe impossibile: i film rari sono ancora in pellicola. Infatti, abbiamo dato trentaquattro copie in 35mm, due o tre in 16mm e due DCP. Secondo me il DCP non rimpiazzerà mai la pellicola per programmi di questo respiro. È troppo costoso. E poi noi presentiamo solo DCP «come si deve», niente Blu ray. Facciamo ogni tanto delle eccezioni per l’ HD, se proprio non si può fare diversamente. Ma almeno esiste una scelta. E, per quegli spettatori ancora molto affezionati al 35mm, c’è un avviso sul sito quando la proiezione è digitale.

In effetti, quando hai introdotto il digitale al Forum, non lo hai fatto «di soppiatto», come spesso succede, ma lo hai annunciato al tuo pubblico con una serie, «This Is DCP», fatta di classici restaurati digitalmente…

E mi sono ben guardato dal dire cose fosse meglio o peggio. Ho semplicemente annunciato This Is DCP, questo è il DCP, e lasciato che il pubblico decidesse da solo. In generale, ha reagito bene – i film erano titoli molto noti e molto amati, alcuni restauri erano migliori di altri…Ma in sostanza la risposta è stata buona. Ci sono state solo un paio di persone che hanno brontolato, e abbiamo ricevuto una lettera. Non sempre è chiaro al pubblico che, oggi, la maggior parte dei restauri sono fatti digitalmente, non importa se poi tu il film lo passi in pellicola. L’importante è la qualità del film. Mi è successo di rifiutare dei DCP –almeno una ventina nel giro di due anni- perché non mi sembravano all’altezza del film. Ma, diciamocelo, ci sono dei DCP fantastici. Per esempio quello di Bonjour Tristesse. E il 3D di Dial M for Murder, di Hitchcock: al Forum abbiamo proiettato più volte la versione 3D in doppioo sistema 35mm. Ma non c’è paragone, il DCP è meglio per il colore, la luce e gli effetti tridimensionali.

Al punto che, oggi, alcuni registi, tra una copia un po’ sbiadita in 35mm e un buon DCP dei loro lavori preferiscono il DCP. Dicono che ormai anche il pubblico è abituato alla qualità. Sei d’accordo?

Il pubblico è abituato a vedere tutto in qualità smagliante. Crescendo, noi eravamo molto più generosi. Per noi era importante vedere il film Non ci preoccupavamo più di tanto se c’era qualche graffio sulla pellicola, se c’era un po’ di polvere, se i colori erano off – l’importante e che le giunte non facessero saltare il suono. Credo che oggi ci sia troppa enfasi sulla qualità. Il pubblico non si rende nemmeno più conto che, se c’è qualcosa di veramente raro, può succedere che lo stato della copia non sia buono. E poi c’è la questione dei costi ….Premetto che noi non siamo andati a cercare il DCP. È arrivato, ce lo hanno «imposto», come i cd al posto degli lp. Ma è vero che quest’anno, grazie al digitale, abbiamo risparmiato circa trentamila dollari in spedizioni. Un’altra cosa importante, per un cinema come il nostro, è la flessibilità. La giornata di ieri è stata un esempio perfetto. Alla domenica facciamo una serie regolare di matineè per i bambini. In una sala avevamo Il mago di Oz in due dimensioni, in un altra in 3D e, visto che c’era ancora gente che voleva entrare, abbiamo potuto improvvisare una proiezione contemporanea sul terzo schermo. È stato un successo enorme. E, va riconosciuto, il 3D di Oz è eccezionale, specie se si pensa che deriva da una fonte bidimensionale.

Sei uno dei pochi curatori in USA che può convincere gli Studios a stampare delle copie in 35mm per le tue retrospettive. Non temi che questa enfasi sul digitale possa scoraggiare quella disponibilità?

È una cosa che faccio ancora, anche se con meno frequenza. Ma onestamente non credo che, in questo momento, il focus degli archivi sia sulla stampa di copie in pellicola. I film sono preservati in 35mm a livello di negativo. Non succederà più che, per fare spazio nei magazzini, uno studio butti via dei negativi, o degli originali, come è successo con i master YCM della 20th Century Fox. Grazie a quella «svista», oggi non ci sono materiali adeguati per ristampare o restaurare i musical in Technicolor della Fox!

E che ne dici della facilità con il cui restauro digitale può diventare «soggettivo»? Troppa luce, troppa pulizia, l’immagine troppo priva di grana…

Bisogna saperlo fare! Grover Crisp, l’archivista dalla Sony, dice, per esempio, che il loro obbiettivo è riportare il film a come lo vedeva il suo direttore della fotografia. Per realizzare un restauro come si vede bisogna avere le conoscenze storiche e artistiche. E anche del gusto. Ma è così anche per il 35mm. Non dimentichiamo che, negli anni settanta, era praticamente impossibile avere delle copie ben fatte in bianco e nero. I laboratori si erano dimenticati come stamparle –hanno letteralmente dovuto reimparare quell’arte.