ExtraTerrestre

«Difendiamo l’Amazzonia dal Covid-19»

Intervista La ong fiorentina Cospe ha lanciato un’iniziativa in difesa dei popoli indigeni della foresta sudamericana, minacciati dal virus e dalle sue conseguenze. Ne parliamo con il presidente Giorgio Menchini

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 30 aprile 2020

Il Cospe è un’associazione nata nel 1983 a Firenze che opera nella cooperazione e educazione internazionale allo sviluppo equo e sostenibile nel rispetto dei diritti umani, con 70 progetti attivi in 26 paesi di tutto il mondo. È molto attiva in America Latina, in Brasile, Perù, Bolivia, Ecuador, Argentina, in molti paesi dell’Africa, dall’Egitto al Niger, Ghana, Mali, Capo Verde, Senegal, tra gli altri, con progetti legati all’ambiente e alle nuove economie, ai diritti delle donne in rapporto alla democrazia e alla lotta contro le discriminazioni e l’inclusione politica, sociale ed economica dei popoli migranti. Abbiamo intervistato il presidente Giorgio Menchini.

Cospe ha lanciato un’iniziativa, «Antenna sulle violazioni dei diritti ai tempi del Covid», in cui un focus particolare è dedicato ai popoli indigeni dell’Amazzonia. Con l’arrivo del virus le minacce nei loro confronti sono molte e di diverso genere. Voi avete raccolto le loro richieste tramite i vostri cooperanti in Brasile, Ecuador, Bolivia, Colombia. Che quadro ne esce?

Molto preoccupante. Il contagio sta crescendo in modo esponenziale in tutta l’Amazzonia e i popoli indigeni sono particolarmente vulnerabili al Covid 19 perché discriminati nell’accesso ai beni e ai servizi e lontani dai centri di cura. Addirittura a rischio di estinzione quelli fra loro che hanno scelto di vivere in isolamento e non hanno protezione immunitaria. Per questo chiedono innanzitutto la chiusura dei loro territori. È una questione di vita o di morte, soprattutto per i «popoli incontattati», ed è una regola che deve valere per tutti, anche per i coloni, i turisti, i missionari. Ma la minaccia più grave viene dalle attività di estrazione di legname, oro, petrolio, che i governi non hanno finora bloccato per debolezza e incoerenza ma soprattutto per assenza di volontà.

Perché l’Amazzonia? Forse perché oggi questi popoli custodi rischiano, non solo per il Covid, l’estinzione, e per il loro legame profondo con un ambiente di biodiversibilità unico al mondo che sono capaci di proteggere?

La nostra Antenna è rivolta alle persone e ai gruppi vulnerabili in tutti i paesi in cui lavoriamo. Ma i popoli dell’Amazzonia ci stanno particolarmente cari perché sono portatori di culture straordinarie, di cui abbiamo bisogno anche per riparare il nostro rapporto con la natura. Popoli che da sempre custodiscono anche per noi un patrimonio di biodiversità unico, contro gli incendi e i tagli, le devastazioni dei negazionisti del clima e le violenze dei negatori dei diritti. In questa sfida mortale che riguarda anche noi sentiamo il dovere di non lasciarli soli.

In che modo la vostra Ong agisce localmente per aiutare direttamente le popolazioni indigene?

Noi siamo un’organizzazione di cooperazione internazionale, impegnata per un mondo con più diritti, più equità sociale e più giustizia ambientale, con un’attenzione particolare alla parità dei generi, l’empowerment delle donne, la valorizzazione delle diversità. Lo facciamo dovunque, sostenendo e mettendo in rete le esperienze innovative che partono dai territori e gli attori che le promuovono, per un cambiamento globale che si diffonda dalla periferia verso il centro. Mettiamo al loro servizio le nostre competenze e le risorse che riusciamo a mobilitare. Nei paesi amazzonici questi attori sono soprattutto le organizzazioni indigene e le associazioni che le affiancano. Lavoriamo con loro per la tutela dei diritti, la conservazione dell’identità culturale, lo sviluppo di un’economia della foresta viva contro le economie predatrici che la abbattono e la uccidono. Un’economia che recupera e sviluppa le tradizioni di estrazione dolce dei prodotti della foresta, castagne, miele, gomma, piante cosmetiche e medicinali, combinando scienza e saperi locali. Vogliamo dimostrare che c’è un’economia che non trova nella foresta un ostacolo, ma la base del suo sviluppo. E i popoli custodi dell’Amazzonia, non solo le comunità indigene, ma anche i cablocos, i seringueiros, i quilombolas, ne sono i protagonisti. In questa economia le donne svolgono un ruolo centrale, che noi cerchiamo di tradurre anche in maggiore potere.

Pensate di lanciare e strutturare in Italia la campagna di raccolta fondi?

Certamente. Noi siamo una Ong che mobilita ogni tipo di risorse, a partire da quelle pubbliche. I fondi privati sono particolarmente utili in contesti di emergenza, com’è il caso della pandemia di Covid-19, ma anche per sperimentare soluzioni innovative nei territori, con grande libertà e flessibilità. In questi giorni stiamo lanciando una campagna per rispondere a una serie di richieste urgenti che riguardano l’accesso a dispositivi di protezione, al cibo, a misure di sostegno al reddito. Nel sito del Cospe è possibile trovare tutte le informazioni a riguardo. Contestualmente stiamo definendo con i nostri partner, anche in Amazzonia, proposte più strutturate e di medio periodo che contiamo di lanciare più avanti.

Una volta raccolti i dati, come intendete farne uso per la sensibilizzazione e controinformazione nei media e nei canali social, e attivare le Corti internazionali?

Ogni settimana aggiorniamo un sistema informativo con i rapporti che ci arrivano da circa 16 paesi nel mondo, dall’Albania allo Zimbabwe, dal Brasile al Niger, dove sono presenti i nostri cooperanti. I dati e le storie più significative vengono divulgate attraverso il nostro sito, i social e le reti di cui facciamo parte. Alcuni casi di violazione sono segnalati a organi giuridici di vigilanza delle Nazioni Unite, quali l’Independent Expert, che si occupa di discriminazione sessuale e di genere, e gli Special Rapporteur, che valutano il rispetto delle Convenzioni internazionali.

Quali sono i vostri rapporti con i governi e le istituzioni di questi paesi, e come la situazione politica di ognuno incide nella vita delle popolazioni indigene?

Abbiamo rapporti ufficiali con tutti i governi dei paesi in cui operiamo, compresi quelli che non brillano in materia di democrazia e diritti umani. Il paradosso è che sono questi i paesi dove spesso la nostra presenza, anche fisica, è più importante, per sostenere tutte le organizzazioni locali impegnate nella difesa dei diritti. Quanto il quadro politico possa incidere sulla vita della popolazione indigene lo dimostra oggi il Brasile. Bolsonaro incarna tutto l’armamentario politico/ideologico che vede l’Amazzonia come una frontiera da addomesticare, e i popoli indigeni come un ostacolo da eliminare sulla via dello sviluppo. Politiche, ma anche semplici parole, che hanno già prodotto una sorta di liberi tutti per ogni tipo di cacciatori d’oro, trivellatori di petrolio, tagliatori di legname, coloni che stanno invadendo le terre indigene, portando con sé il corona virus. In questo modo è morto un giovane di 15 anni, dieci giorni fa. Studiava da maestro elementare in una comunità che è la porta di accesso della corsa all’oro nelle terre degli Yanomani.

Nel vostro studio sui paesi dell’Africa, America Latina, Mediterraneo e Balcani dove operate, come le misure adottate per il Covid incidono sui diritti fondamentali delle persone?

Ci sono due aspetti che teniamo sotto stretta osservazione. Il primo riguarda l’incremento della violenza domestica e di quella legata ai diritti sessuali e riproduttivi, nei confronti delle donne e delle ragazze, a fronte di una maggiore difficoltà di denunciare e un minore accesso ai servizi. Il secondo l’abuso dell’emergenza per limitare le libertà civili e promuovere svolte autoritarie. I popoli amazzonici, in particolare, denunciano il rischio di militarizzazione dei loro territori, che può trasformarsi in un pericoloso veicolo di contagio e preludere a un’occupazione funzionale ai piani di colonizzazione dell’Amazzonia. Bisogna essere pronti a impedirlo.

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