Dietro le porte di legno la modernità di «Jenufa»
In scena L'opera di Janàcek nell'allestimento di Robert Carsen a Palermo. Tagliente, scabra e antiretorica nel suo incedere inesorabile riesce a tingere il realismo di unatenace forza poetica.
In scena L'opera di Janàcek nell'allestimento di Robert Carsen a Palermo. Tagliente, scabra e antiretorica nel suo incedere inesorabile riesce a tingere il realismo di unatenace forza poetica.
Tante porte di legno, ecco tutto quel che c’è sulla scena nella Jenufa allestita da Robert Carsen per la Vlaamse Opera di Anversa, che ha debuttato il 23 ottobre a Palermo. Piantate nel suolo terroso le porte demarcano la piazza del villaggio, disegnano le stanze della casa di Kostelnicka, si aprono al passaggio della folla festante o irosa, si sollevano a minacciare, si rinserrano per nascondere drammi e segreti.
Jenufa lascia sgomenti ogni volta per incisività drammatica e modernità dei temi. L’opera, composta nel 1904 da Leóš Janácek, che trasse il libretto dal dramma Její pastorkyna ( La sua figliastra) di Gabriela Preissová, non colpisce soltanto per via dei due nodi centrali che inevitabilmente fanno correre la mente fuori dal teatro: il volto di una ragazza sfregiato da una lama di coltello; il gesto disperato di una donna che sopprime un neonato pur di offrire una nuova possibilità alla figliastra condannata dallo stigma sociale. Ciò che fa la differenza è la temperatura drammatica della musica, con la sua cifra tagliente, scabra e antiretorica, che nel suo incedere inesorabile riesce tuttavia a tingere il realismo di una tenue, tenace forza poetica.
Nonostante tutto Jenufa e Laca avranno una nuova occasione di riscatto, ma attraverso lo scandalo e la denuncia del crimine di Kostelnicka, che pure Jenufa saprà perdonare. Il cammino della modernità inizia fra quelle porte, che Robert Carsen (scene e costumi sono di Patrick Kinmonth) nel secondo atto ci mostra chiuse e opprimenti in un buio senza speranza, durante la gravidanza di Jenufa, vissuta come peccato e segregazione.
Il disegno delle luci e la conclusiva, liberatoria pioggia primaverile tengono viva la speranza di un esito lieto, in una concezione registica che fa essenzialmente perno sulle capacità attoriali di cantanti e coro. Andrea Danková interpreta una Jenufa ripiegata nel dolore ma piena e luminosa nel canto, mentre perfetti nella caratterizzazione i due fratellastri Laca e Števa, cantati da Peter Berger e Martin Šrejma.
Altera e bella come il personaggio di un film neorealista, Ángeles Blancas Gulíl offre slancio vocale e totale partecipazione alla disperata ricerca di felicità che Kostelnicka persegue per la sua figliastra. Ben tratteggiati i ruoli minori fra cui spicca la anziana Buryja di Gabriella Sborgi.
La lettura di Gabriele Ferro sollecita l’impegno di orchestra e coro per trovare la misura di nitore oggettivo che lascia fluire la narrazione, esaltando la scrittura di Janáček senza eccessi di concitazione o parossismi espressionistici. Alla fine successo pieno anche se dispiace che il pubblico palermitano, di solito numeroso anche per i titoli più impegnativi o meno noti di Wagner e Strauss, abbia in parte disertato l’appuntamento. Ultima recita stasera.
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