Una leggenda auratica accarezza la figura di James Lee Byars (Detroit, Michigan, 1932-Il Cairo, 1997) dreamer liminale che attraverso la sinestesia, quasi alchemica, di corpo, environment, scultura, performance, lettere, libri d’artista, parola, inscrive un paradigma memorabile nel mondo dell’arte. Imbevuto di filosofia occidentale e orientale e psicologia, come lui stesso si definiva «l’artista sconosciuto più famoso del mondo», JLB oggi più che mai incarna il concetto di disparition, insito dentro una estetica semanticamente densa che rappresenta l’unica frontiera ad una società dominata dal feticismo dell’immagine. Son troppe le certezze da frantumare attraverso questo artista sciamanico a cui Pirelli Hangar Bicocca di Milano, dedica una preziosa retrospettiva James Lee Byars, curata da Vicente Todolí e organizzata col Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid.

È UNA ESIBIZIONE complessa, esegetica e allusiva perciò imperdibile (solo l’Hangar Bicocca poteva realizzarla) che elude l’entertainment, ma che ai fruitori scippa i neuroni e regala l’incanto, adducendo ad una riconsiderazione dell’arte in pieno consumismo di massa, nonché all’inclinazione pervicace dell’artista verso il consenso. Da queste apostasie scaturiva la ricerca di JLB, enfatizzata dalla costruzione della sua eccentrica allure che lo sospendeva dal visibile, facendolo sparire dietro i suoi cilindri neri, maschere o veli di taffetà che gli coprivano gli occhi «Vedere gli occhi, disse, è troppo intimo». I suoi outfit non erano solo un sofisticato vezzo ma un influsso suggerito dallo stile dei preti shintoisti, osservati nei suoi continui viaggi in Giappone, dove era rimasto affascinato dalla calligrafia, la cerimonia del tè, il teatro No, il buddismo Zen, il cerimoniale dei materiali, delle carte fatte a mano, dei tessuti e delle pietre preziose. Ed erano anche la sua effrazione, in una esplorazione che ribolliva tra sculture e performance clamorose. Sfuggire alla «metafisica della presenza» è stata la pulsione incarnata nel suo tragitto estetico, filosofico e ermeneutico. Il senso di dialettica e l’intrigo coscienziale traspaiono nell’installazione The Devil and His Gifts (1983), una distesa pavimentale di seta su cui vari oggetti (stelle, sfere, mezzelune e un cerchio di arenaria bernese, un gomitolo di corda di satin viola, un testo manoscritto ed altro) sconfinano in una molteplicità simbolica.Artista imbevuto di filosofia occidentale, orientale e psicologia

COSÌ È NELL’ ATTIGUA installazione black The Giant Angel with the Human Head (1983). Accanto è la enigmatica The Unicorn Horn (1984) in cui il corno spiralico di un Narvalo, una rarità cetacea artica, è adagiato su un drappo di seta bianca, le cui pieghe appaiono come un mare spumoso. La magnifica ossessione per il concetto di perfezione (compendiata nelle inobliabili performance The Perfect Kiss (1974) e The Perfect Love Letter (1974) che assilla e fomenta JLB per tutta la vita, lo apre ad un universo lunare ed interiore, modulato su solenni volumi primari (in oro o ottone dorato o marmo bianco thasiano). Così la forma si fa senso e la sua ripartizione si scioglie in invenzioni immaginarie come in The Moon Books (1989) o si immola come in The Rose Table of Perfect (1989) dove 3.333 rose rosse plasmano una sfera di poliestere, immota e seducente. Le due installazioni frontali The Chair of Transformation (1989) in cui si intravvede una sedia veneziana del XVII secolo in una tenda di seta rossa e Hear Th Fi To In Ph Around This Chair And It Knocks You Down (1977) in cui una sedia dorata si scorge da una tenda nera, alludono al ruolo dell’artista peripatetico, alla sua solitudine e infinitezza. L’oro è talmente pervasivo che da puro colore si tramuta in humeur accendendo le minimali strutture in estatiche volumetrie in cui si sviluppano le sculture forse più conosciute come The Golden Tower (1990) una sorta di faro dorato ascensionale, alto 20 metri che apre sorprendentemente la mostra, la misterica anfora dorata The Spinning Oracle of Delfi (1986) e l’immutabile The Door of Innocence (1986-89).Ho sempre desiderato raggiungere una forma che suggerisse la figura umana, ma che fosse molto chiusa su se stessa, conservando la sua purezza (James Lee Byars)

QUASI SFINGEA è Byars is Elephant (1997) una installazione realizzata in seta oro, al cui centro si erge un piedistallo su cui è poggiata una palla di corda di pelo di cammello, fatta a mano. È una metafora esistenzialista, il cui nodo di corda sottintende il groviglio di intestini (forse un riferimento al cancro allo stomaco di cui è morto l’artista). Qui, come sempre, la sua investigazione è solenne e rara, poiché le sue opere-mondo trattano, husserlianamente, il divenire soggetto che tenta di mostrare come la soggettività possa essere il luogo di una trasformazione della realtà. The Diamond Floor (1995) evoca impalpabilmente la forma umana, la sua perfezione vitruviana, attraverso i 5 diamanti poggiati a terra che riverberano i loro bagliori.
Chiude mirabilmente Red Angel of Marseille (1993), una eclatante distesa di 1.000 sfere opalescenti di vetro rosso, il cui disegno di volute simmetriche, ricorda l’arabesco, l’arte dei giardini francesi, il motivo del ricamo e l’albero della vita. Un mistero pellicolare, come quasi tutte le opere di JLB, che cattura e invade. La sua attitudine corporea è rimandata al Public Program (curato da Giovanna Amadasi) che si dilaterà nel Febbraio 2024 con una settimana di re-enactment delle sue primissime performance delegate: le nuove generazioni lo scopriranno e l’ameranno alla follia per la sua unicità.