Cultura

Diego Rivera e il suo sogno precolombiano

Diego Rivera e il suo sogno precolombianoPedregal, Anahuacalli, Ribera-Rocha – Foto di Patrizia Boschiero

Intervista L’architetto Mauricio Rocha Iturbide racconta il museo immaginato dal maestro messicano che «non solo voleva una casa per la sua collezione di 50mila pezzi, ma aveva in mente una ’Città delle arti’, un luogo vivo»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 giugno 2023

Tutto ha inizio nel 1941. Di ritorno da San Francisco, Diego Rivera comincia a dar forma al suo sogno. Nel Pedregal de San Ángel, una magnifica zona a sud di Città del Messico, lui e Frida Kahlo hanno comprato un pezzo di terra con l’idea di costruirci una fattoria. Ma Diego già immaginava il suo Anahuacalli, non solo un museo dove custodire la sua già poderosa collezione di arte precolombiana, ma una vera Città delle arti. Il Pedregal è un luogo quasi magnetico: un paesaggio di lava apparso dopo la eruzione del vulcano Xitle, attorno al 400 a.C. L’Anahuacalli sembra quasi la porta tra il presente e un inframondo.
Due anni fa, nel pieno della pandemia, sono terminati i lavori di ampliamento e ridisegno del Anahuacalli, il museo di Diego Rivera a Città del Messico. A firmare questo intervento è Mauricio Rocha Iturbide, classe 1965, uno dei più stimati e conosciuti architetti del paese nordamericano. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti per il progetto, è del marzo scorso il Premio Mies Crown Hall América, assegnato dall’Illinois Institute of Technology (IIT). Abbiamo incontrato Mauricio Rocha a Treviso, ospite della Fondazione Benetton Studi e ricerche sul paesaggio, che per due giorni si è immersa nell’architettura messicana.

In questo progetto c’erano due presenze pesanti con cui fare i conti: il lascito di Diego Rivera e un luogo così speciale come il Pedregal…
Conosco questo luogo da sempre. L’edificio di Diego Rivera è davvero strano e stupefacente, una specie di rappresentazione folle del Messico e della storia pre-ispanica, una sorta di piramide, una costruzione così eclettica che qualcuno lo considera il primo edificio post-moderno del paese. Dovevo comprendere la logica di questo luogo, la visione di Rivera, partendo da un insieme di indizi: ad esempio mi ha sempre colpito la piazza che sembra quasi sommersa e i piccoli edifici attorno. Ed era qualcosa di incompiuto: Diego Rivera morì nel 1957 e non era finito nemmeno l’edificio-piramide. Sono stati la figlia Ruth e Juan O’Gorman a riprendere i lavori fino al 1964, senza però riuscire a realizzare fino in fondo il sogno del maestro.

Cosa aveva immaginato Diego Rivera?
Aveva in mente una «Città delle arti», un luogo vivo, con laboratori di arti visive, scienza, danza aperti a tutti. All’epoca sono riusciti a costruire gli edifici per uffici e amministrazione e delle sale espositive. Quando ora hanno aperto il concorso, si chiedeva di ampliare gli spazi per i laboratori e per la grande collezione pre-ispanica, stiamo parlando di cinquantamila pezzi.

Mauricio Rocha Iturbide, ampliamento museo Anahuacall (foto-di Luigi Latini)

Come è riuscito a raccogliere una collezione di quelle dimensioni?
A quell’epoca era molto facile. I contadini che arrivavano a Città del Messico vendevano una quantità di reperti trovati nelle campagne. Lui ne comprò migliaia, soprattutto quelli provenienti dalle zone occidentali, in un momento in cui i collezionisti messicani, nordamericani ed europei erano concentrati più sul mondo azteca e maya e non badavano alle zone di Colima o Jalisco. È interessante come Rivera fosse ossessionato dall’idea dell’accumulo, più che la scelta o la catalogazione: la sua era una sorta di archivio aperto, molto legato alla sua visione cosmologica.

Dunque, qual è il progetto?
Sono partito dal primo patio esistente, sommerso, considerandolo una piazza «dura» e ho disegnato un secondo patio, una sorta di piazza «leggera», riprendendo le suggestioni dell’architettura pre-ispanica con un disegno e un gusto contemporaneo. L’importante era che tutto l’intervento potesse galleggiare nel paesaggio, utilizzando la pietra lavica presente così come era stato fatto per gli edifici della città universitaria, la stessa piramide di Rivera e le case del famoso Jardin del Pedregal, il quartiere residenziale costruito dal grande architetto Luis Barragán. Mi stava soprattutto a cuore la questione della riserva ecologica, che è una sorta di biopsia di quello che un tempo era tutto questo paesaggio. Da qui l’idea di edifici che «galleggiano», come fossero barche, rialzati dal terreno perché non impattassero, là, dentro il paesaggio. Il secondo patio è a livello del suolo che in quel punto si alza: i due patii diventano un equilibrio di alto e basso, positivo e negativo. Gli edifici sono di cemento e pietra, lavorando un gioco di luci e di finestre e riprendendo insomma fino in fondo la lezione di Rivera.

Un ordito di passato e presente…
Sì, io credo sia necessaria la lettura della preesistenza assieme a una sua reinterpretazione. È da sempre la mia regola. Credo che a salvarmi dalla post-modernità sia stata la lezione di Carlo Scarpa: comprendere il passato e rispettare la sensibilità del presente, immaginando un luogo nuovo, una gravità diversa, una nuova gestione della luce e soprattutto un vincolo con il paesaggio.

Diego Rivera

C’è da chiedersi cosa significhi oggi realizzare un museo, che ne pensa?
La sensibilità è cambiata. Storia, cultura ed ecosistema devono essere collegati. Qui l’obiettivo era aprire la collezione e ridare vita al luogo. E soprattutto riaccendere la visione di Rivera, mettendo al centro i laboratori e la produzione artistica per costruire coscienza sociale attraverso l’arte. Al contrario di un museo tradizionale, che conserva ed espone, qui il visitatore è sollecitato a star dentro e a creare, sfruttando non solo gli spazi interni, ma anche il sistema di portici e patii che abbiamo disegnato, sfruttando il buon clima della città.

Frida e Diego sono delle icone internazionali e anche una fabbrica di marketing. Qual è il vero lascito almeno in Messico?
Non credo che i due fossero così consapevoli dell’impatto che stavano costruendo attorno alla loro figura, soprattutto Frida su cui poi è montato un vero fenomeno. Credo che l’immagine costruita su di lei non renda giustizia della profondità delle sue opere e della relazione così intima col suo lavoro. Diego è stato una presenza che ha occupato anche uno spazio politico. A me ricordano il grande fermento culturale che ha vissuto il Messico del dopoguerra. Arte, cinema, architettura, possibilità economiche per via del petrolio, la sensazione di poter fare grandi cose.

Ora si parla di una «Quarta trasformazione», una stagione di riforme radicali su cui ha scommesso il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). Eppure, sembra più una promessa e anche molto contraddittoria…
Nell’immaginario collettivo la rottura elettorale del 2018 col vecchio sistema ha suscitato grandi aspettative che vanno al di là di Amlo. Sì, si sta investendo in tante opere pubbliche, spazi culturali, centri sportivi nelle zone più remote, mentre poco si stanno appoggiando musei e istituzioni culturali. Si sente una grande energia, il mondo culturale produce molto e reclama voce, interpreta davvero il ruolo di coscienza critica. Sono sempre convinto che sia la società civile a costruire un paese e non il governo di turno.
Al presidente, come a tutti gli uomini di potere, preoccupa questa massa critica costante, una società civile che in gran parte lo ha votato ma che è anche il suo principale contraddittorio. Per cui mi sembra importante che questa forza civica resista e cresca per mettere in discussione il potere. E tutto questo rende il paese ancora più interessante, vivo, partecipato.

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