Diego Giacometti, “Löwenkopf” (Testa di leone), 1934, Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati, © Diego Giacometti, by SIAE 2023

Viene davvero dalla val Bregaglia o non piuttosto da qualche scavo di Vulci questa testa di leone scavata nel serpentino, con i denti pronti a serrarsi in una morsa potente e spaventevole? Collocata nell’affascinante ipogeo del nuovo museo della Fondazione Luigi Rovati a Milano quella scultura provoca un effetto straniante, nel senso che sfugge alle coordinate sia geografiche che temporali. Eppure sappiamo chi ne è l’autore, Diego, cioè «l’altro» Giacometti, e sappiamo con precisione dove e quando è stata realizzata: a Maloja nell’estate 1934. È un’opera potentemente arcaica che secondo la filosofia espositiva di questa nuova istituzione milanese viene chiamata a relazionarsi con i reperti etruschi che costituiscono il nucleo della raccolta. Infatti a pochi metri di distanza la Testa di Acheloo, un capolavoro del V secolo a. C., lancia il suo sguardo selvaggio di ibrido tra toro e uomo.
Aperta da pochi mesi in un palazzo di Corso di Porta Venezia acquisito nel 2016 e ripristinato con l’intervento di Mario Cucinella, la Fondazione Luigi Rovati, guidata da Giovanna Forlanelli, ha scelto di sperimentare modalità espositive facendo cadere separazioni tra contemporaneo e antico per cercare invece di portare a galla sorprendenti interconnessioni. Così in una vetrina una ceramica etrusca si relaziona con un capolavoro di Fontana e ora anche con Miroir, terracotta dipinta di bianco di Diego Giacometti.
È infatti lui il protagonista della nuova mostra «diffusa» dentro gli spazi della Fondazione (Diego, l’altro Giacometti, a cura di Casimiro Di Crescenzo, fino al 18 giugno). Diego è il secondo dei figli di Giovanni e Annetta Giacometti, nato un anno dopo Alberto. Dal 1929 aveva iniziato a lavorare per il fratello, situazione che aveva reso felici immediatamente entrambi. Se ne stava dietro le quinte per non interferire sulla carriera di Alberto, tuttavia Diego si rivela presto scultore nel senso pieno del termine, come dimostra la Testa di leone. Il 1934 però rappresenta un passaggio cruciale per i Giacometti. L’anno precedente era morto improvvisamente il padre a cui erano legatissimi. Alberto, malato, non è in grado di partecipare al funerale. Elabora il trauma mettendosi a lavorare sul tema della testa umana e chiede a Diego di prestarsi in lunghissime pose. È una scelta che fa gridare André Breton al tradimento e che porta alla fine traumatica delle relazioni con il mondo surrealista.
È a questo livello cronologico che Diego sembra maturare una propria identità specifica che troviamo esemplarmente condensata nelle parole di Roger Montaldon, amico e artista chiamato nel 1963 da Jean Leymarie a scrivere il primo testo critico su di lui. Le sue opere sono «pezzi in cui l’utile e il necessario si mescolano intimamente con il gradevole e l’insolito fino a confondersi». È questo il Diego che vediamo invadere, sempre con la discrezione che gli è congenita, gli spazi del piano nobile della Fondazione Rovati, dove la mostra, dopo l’inizio folgorante nell’ipogeo, sviluppa il suo percorso. Qui un suo lampadario polimaterico, che ha la leggerezza di una corolla, fa parte dell’allestimento stabile.
Le sale sono percorse dalle creature del suo meraviglioso bestiario: più che amare gli animali Diego si sentiva parte del loro mondo. Nel 1944 aveva persino accolto nello studio un cucciolo di volpe, ribattezzato Misrose, trovato da un prigioniero di guerra sulla strada di ritorno verso Parigi. Presenza simpatica ma selvaggia. Peccato che per colpa di una distrazione di Alberto un giorno era sfuggita: qualche tempo dopo, per i 50 anni del fratello, Diego gli aveva regalato un candelabro dove sul basamento faceva capolino la testa di una volpe. Quasi un affettuoso memo…
Gli animali non sono semplicemente soggetti tematici per le sue opere. Hanno un qualcosa di totemico, che non intacca la loro leggerezza e corsività. In una delle realizzazioni più belle, il Table berceau, quattro testine di gatti vigilano agli angoli. In due versioni aveva usato come modelli i cani dei rispettivi committenti (in mostra è esposto il modello per Tête de Seraphine). La stessa struttura del tavolo, con i grandi piedi arcuati, suggerisce la forma del corpo di un animale.
C’è sempre un accento fiabesco nei lavori di Diego, come accade in una delle opere più toccanti in mostra. Toccante fin nella scelta del titolo: Console «La Promenade des amis», del 1976. Gli amici naturalmente sono animali, tre cani e un cavallo, che sfilano sulla sottile asse posteriore, sotto il piano di vetro. Uno dei cani alza disinvoltamente la gamba per fare i suoi bisogni sul tronco di un albero; quello che segue punta il muso a fiutarne l’odore.
Nella sala caratterizzata dall’intervento site specific di Giulio Paolini (Ora finora, 2022) è esposto Guéridon racines (1964): le gambe del tavolino più che radici si appoggiano al terreno con la prestanza di vere zampe. Meravigliosa la soluzione escogitata per la richiesta che Jean-Paul Binet gli aveva avanzato: invece di dipingere l’uovo di struzzo che il professore aveva consegnato per farne un intervento artistico a lui come pure a Chagall e Mirò, Diego lo monta dentro la struttura bronzea stilizzata del corpo dell’uccello: l’uovo è tornato a casa sua…
Ai due fratelli capitava in molti casi di lavorare quasi a quattro mani su commissioni per gli arredi di case parigine d’alto bordo. Per la residenza di Elsa Schiaparelli in Place Vandôme Alberto disegna gli oggetti decorativi, il fratello i lampadari. «Li firmo semplicemente Diego così non facciamo confusioni», aveva detto con la sua consueta discrezione. Committenti di primo piano sono Aimé e Marguerite Maeght, per i quali nel 1955 Diego realizza una grande gabbia per uccelli nella quale inserisce una delle sue sculture più iconiche, Chat maître d’hôtel: un innesto decisamente ironico visto che il gatto-cameriere è costretto a servire le sue potenziali vittime.
Nelle schede in catalogo Casimiro De Crescenzo ipotizza che all’origine di questa sua predilezione non solo per gli animali quanto per la loro rappresentazione ci sia il rapporto con i Bugatti: Bice, la moglie di Giovanni Segantini, era amica di Giovanni Giacometti e della madre Annetta e viveva a Maloja. Era sorella di Carlo Bugatti, grande creatore di arredi Art Nouveau (una sua sedia era in bella mostra nell’atelier di Giovanni) e padre di Rembrandt, noto per le piccole sculture di animali, in cui era specializzato l’amico Paolo Troubetzkoy. Il valore aggiunto che però Diego immette rispetto a questi suoi probabili riferimenti è il «sentimento», come aveva giustamente colto Alberto. Un sentimento di stampo francescano secondo quanto attestato da un aneddoto risalente agli anni della guerra, quando Diego era solo a Parigi mentre il fratello era costretto a stare a Ginevra: pare che si preoccupasse di nutrire con gli insetti un ragno che aveva teso la sua tela in un angolo dello studio!
Per gli angoli della sala di un grande artista e grande amico, Francis Gruber, aveva invece realizzato tre meravigliose sculture metà uccelli e metà gargoyles, in gesso, fil di ferro e stoppa. Opere leggere e fantastiche (che arricchiranno la mostra nelle prossime settimane) destinate a tessere dialoghi con altri immaginari lontani nel tempo ma ben testimoniati in questi spazi.
Nella grande sala da pranzo dove Luigi Ontani con i suoi grandi acquerelli ha ripercorso il viaggio di Lawrence in Etruria alla ricerca anche delle proprie radici (infatti è nato a Vergato, piccolo centro vicino a Marzabotto, una fra le più importanti città fondate dagli etruschi), troviamo un’altra opera affettuosa di Diego: è la poltrona disegnata per il fratello quando questi era stato vittima di un incidente stradale. I pomelli sono a forma di bastone, per rendere più agevole l’alzarsi. L’altro Giacometti, sempre così genialmente altruista…