Dieci premi Nobel contro le sentenze di morte in Arabia saudita
Golfo In una lettera inviata a re Salman chiedono che sia salvata la vita a Mujtaba Sweikat e ad altri 13 giovani sciiti condannati per "terrorismo" e che in realtà avevano diffuso informazioni sulle manifestazioni contro la monarchia. Le confessioni, denunciano, sono state estorte con la forza
Golfo In una lettera inviata a re Salman chiedono che sia salvata la vita a Mujtaba Sweikat e ad altri 13 giovani sciiti condannati per "terrorismo" e che in realtà avevano diffuso informazioni sulle manifestazioni contro la monarchia. Le confessioni, denunciano, sono state estorte con la forza
È una corsa contro il tempo per salvare la vita di Mujtaba al Sweikat e altri 13 giovani sciiti arrestati nel 2012 e condannati a morte per “terrorismo” da un Tribunale saudita. I centri internazionali per la difesa dei diritti umani sono convinti che i tempi dell’esecuzione di massa si siano fatti terribilmente stretti. Così dieci vincitori del premio Nobel per la pace – tra i quali Desmond Tutu, Tawakkol Karma, Shirin Abadi e Mairead Maguire – hanno deciso di rivolgersi direttamente a re Salman e al principe ereditario Mohammed per fermare il boia. I toni che usano nella lettera inviata al monarca e all’erede al trono non sono certo pacati. I premi Nobel denunciano che i 14 in attesa della decapitazione sono stati condannati al termine di un processo sommario e sulla base di confessioni estorte con la violenza.
Mujtaba al Sweikat non aveva ancora 18 anni quando è stato arrestato. La sua “colpa” è stata quella di aver amministrato un gruppo su Facebook che riferiva delle manifestazione di protesta contro la monarchia. Durante gli interrogatori, denunciano gli attivisti sauditi, gli hanno fratturato una spalla. Un altro condannato a morte, Ali al Nimr, aveva “osato” inviare foto delle dimostrazioni. Un altro ancora, Munir Adam, è sordo e cieco. I premi Nobel chiedono non soltanto l’annullamento delle condanne a morte. Insistono affinché l’Arabia saudita rispetti le leggi internazionali e i diritti dell’uomo.
Tutto regolare invece per il portavoce del ministero della giustizia saudita, Mansour al Qafari. Spiega che «tutti gli imputati in Arabia Saudita ricevono un processo giusto» e che le condanne a morte sono riviste da una corte d’appello e dalla Corte suprema, con un totale di 13 giudici che esaminano ogni caso. Saranno pure riesaminate dai massimi giudici del Paese ma quelle sentenze vengono annullate o modificate solo in casi eccezionali.
Dietro la maschera della “lotta al terrorismo” si giustifica tutto in Arabia saudita, Paese dove i leader religiosi sunniti wahhabiti considerano i cittadini sciiti “apostati” e alleati naturali dei nemici iraniani. Per questo le forze di sicurezza e l’esercito hanno intensificato i rastrellamenti nell’area di Qatif, nelle regioni orientali del Paese a maggioranza sciita, comportandosi come se fossero in guerra. Ai morti e agli arresti si aggiunge la distruzione, quasi totale, della città di Awamiya (40mila abitanti) roccaforte dell’opposizione sciita.
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