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Dieci donne al servizio di Adolf Hitler, o meglio del suo sistema digestivo

Dieci donne al servizio di Adolf Hitler, o meglio del suo sistema digestivoLuca Padroni, Libera uscita, 2002

Narrativa italiana Rosella Postorino, «Le assaggiatrici», Feltrinelli

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 gennaio 2018

Autunno 1943. Dieci giovani donne di diversa provenienza geografica, estrazione sociale e credo politico, vengono forzosamente reclutate per diventare le assaggiatrici del cibo di Hitler. Ben pagate, con accesso a prodotti alimentari di qualità superiore, la loro esistenza diventerà il riflesso speculare e estremizzato del soggetto massificato del nazionalsocialismo.

Manodopera e cavie al tempo stesso, le dieci donne si trovano a dover necessariamente condividere il destino del Capo, fin quasi a diventarne una «funzione»: quella connessa all’apparato digerente. Il cibo, elemento vitale per eccellenza, si rovescia in minaccia di morte (il veleno) e soprattutto in efficiente strumento di controllo. La sala mensa – luogo di lavoro coi i suoi orari prestabiliti e da rispettare – diventa lo spazio della detenzione fisica e psicologica di un popolo. Definita anche «aula scolastica», la mensa si caratterizza quale spazio di un controllo, tanto ideologico quanto coercitivo, finalizzato a reiterare i rapporti di potere vigenti (di classe, genere, razza, e così via).

L’ultimo romanzo di Rosella Postorino, Le assaggiatrici (Feltrinelli, pp. 287, euro 17,00), basato sulla vera storia di Margot Wölk, ha numerosi pregi e alcuni difetti. Si fa apprezzare innanzitutto per la qualità della scrittura: stile paratattico (ma vivificato da un vocabolario medio-alto) portato a sciogliersi nei momenti narrativi connessi ai filtri della memoria, della nostalgia, del patetico-sentimentale (come nello splendido finale nella mensa di un ospedale in una Germania alle presa con la riunificazione), e della resistenza creaturale all’orrore (l’umanità sofferente ma dignitosa ammassata nel treno verso Berlino). Altro merito del romanzo è senza dubbio quello di provare a rappresentare il nazismo come fenomeno al contempo assolutamente distopico (e mi pare di riconoscere alcuni riferimenti a The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood) ma anche contiguo alla nostra quotidiana normalità.

Nel romanzo la definizione dei rapporti sociali nel quadro del nazismo rimanda infatti continuamente a tali rapporti fuori dal quadro di eccezione che la dittatura in questione dovrebbe rappresentare. Così come l’assurdo lavoro da cavie a cui le protagoniste sono soggette mostra insospettate contiguità col lavoro tout court, allo stesso modo le relazioni interpersonali e di genere, a cominciare naturalmente da quelle sessuali, esulano continuamente da un’idea di eccezionalità per riferirsi specularmente, fino alla scena dello stupro (anche questo in sala mensa), a rapporti vittima-carnefice di tipo patriarcale tuttora attivi.

Dove il romanzo risulta più debole è certamente nelle escursioni verso la sfera sociologica. Un po’ perché il modello da Sorvegliare e punire che è alla base di questo tipo di narrazioni si sta ormai rivelando scontato, un po’ perché Postorino non riesce a superare una certa sclerosi tipologica dei suoi personaggi: fra le dieci donne abbiamo quelle coscienti, quelle ribelli, quelle spaventate, quelle fanatiche. Allo stesso modo, le frasi gnomiche che emergono quando il nazismo viene analizzato come psicologia delle masse, risultano alquanto banali nel loro ridurre il fenomeno alla mistica dell’appartenenza e dissoluzione del soggetto nel gruppo: «metti la tua anima nel braccio, offrila al Führer. Lui non te la renderà, e tu potrai vivere svuotato di questo peso»; oppure: «quella nazione era struggente, era il senso di appartenenza che rovesciava la solitudine nella quale chiunque nasca è confinato».

Non banale è invece la riflessione sulla resilienza delle protagoniste. Dinnanzi allo squadernarsi di un controllo totalizzante, la capacità di adattamento finisce inevitabilmente per rivelarsi quale fenomeno contiguo all’orrore medesimo (evocato anche in relazione al Lager). Il racconto invece si fa – come il dolore che una delle ragazze vuole infliggersi per dimostrare a se stessa un’ultima parvenza di autonomia – correlativo del trauma medesimo: riporta alla luce il non detto e fa persistere il trauma, preserva cioè la memoria a quello collegata obbligando i personaggi (e il lettore) a farci i conti.

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