Europa

Dieci anni dopo le banlieues: «Una nazione razializzata». Intervista a Eric Fassin

Dieci anni dopo le banlieues: «Una nazione razializzata». Intervista a Eric Fassin

Intervista Il sociologo francese Eric Fassin

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 10 novembre 2015

Dieci anni fa, esattamente l’8 novembre 2005, l’allora presidente Jacques Chirac aveva decretato lo stato d’emergenza nei 25 dipartimenti dove si era concentrata la rivolta dei giovani delle banlieues. Oggi, a un mese dalle elezioni regionali del 6 e 13 dicembre, con la minaccia di una possibile conquista di due presidenze (Nord-Pas de Calais-Picardie e Provence-Côte d’Azur) da parte del Fronte nazionale, la presidenza Hollande e il governo Valls sembrano paralizzati, come incapaci di dare risposte e mandare segnali a un paese smarrito.

Il sociologo Eric Fassin, professore di scienze politiche che ultimamente ha pubblicato, tra l’altro, Démocratie précaire. Chronique de la déraison d’Etat (La Découverte, 2012) e Gauche, l’avenir d’une désillusion (Textuel, 2014), analizza l’enorme vuoto scavato dai socialisti al potere, che si sono dimostrati incapaci di opporsi alla deriva «razialista» che sta conquistando terreno in Francia.

In dieci anni, qualcosa è cambiato nella situazione dei giovani? Le ragioni della rivolta sono ancora presenti oppure degli interventi, piccoli o grandi, da parte del governo e degli enti locali hanno smosso un po’ i parametri?
Le condizioni economiche sono peggiorate, sia sul mercato del lavoro che per quello che riguarda il welfare, nei quartieri popolari e per i «giovani» è ancora più duro. Ma anche le condizioni politiche si degradano. Nel 2005, al momento delle «rivolte», l’allora presidente Chirac aveva denunciato «il veleno delle discriminazioni» e aveva insistito sul fatto che «qualunque siano le origini, i figli dei quartieri difficili sono tutti figli e figlie della Repubblica. Ma nel 2015, con un presidente socialista, non resta più molto della politica di lotta contro le discriminazioni. Non soltanto la giustizia assolve i poliziotti incriminati dopo la morte di Zyed e Bouna dieci anni prima, ma il primo ministro, Manuel Valls, rifiuta di imporre alla polizia l’obbligo di fornire una ricevuta (che attesti un avvenuto controllo di polizia) per lottare contro i controlli basati sul colore della pelle. Poiché lo stato che non fa nulla per mettere fine a questa situazione, i «giovani» ne traggono le conseguenze: non vedono alcuna differenza profonda tra Nicolas Sarkozy e François Hollande. Come potrebbero ancora credere alla politica?

C’è l’impressione di una progressiva invisibilità delle banlieues, in quanto parte della collettività repubblicana. I discorsi mediatici e politici si concentrano sui «francesi d’origine», si parla delle sofferenze della «Francia periferica» e la voce delle banlieues si sente poco. Perché secondo lei la società volta le spalle a questa parte della società?
Opporre la «Francia periferica», periurbana, alle «banlieues», significa razializzare la questione sociale; fare come se ci fossero da un lato le classi popolari e dall’altra le minoranze razziali e quindi come se le classi popolari fossero bianche e come se le minoranze non appartenessero al popolo. Non solo questo è falso (le minoranze sono sovra-rappresentate nelle classi popolari), ma è molto pericoloso. Perché viene fatto questo gioco? Le politiche neoliberiste messe in atto sia dalla destra che dai socialisti hanno spezzato i legami dei partiti con la loro base popolare; ma a sinistra molti credono che, per ristabilire dei legami con il popolo, si debba rispondere alla sua presupposta insicurezza culturale. Invece di rispondere all’insicurezza economica, vengono attizzate le tensioni identitarie. Con il pretesto del populismo, questo mostra un grande disprezzo per le classi popolari.

Tutti potrebbero trovarsi d’accordo nel considerare la disoccupazione come la causa, o una delle principali cause, della crisi delle banlieues (e non solo). Perché vengono privilegiate le questioni culturali e religiose quando si affronta questa situazione?
L’economia è solo un versante del problema, l’altro versante è politico. Il problema non è solo l’inazione né l’azione politica, ma anche il discorso, la griglia di lettura. Da un lato, a destra ma anche tra i socialisti, molti rifiutano di parlare di islamofobia; ma dall’altro, gli stessi non smettono di stigmatizzare i musulmani: è la litania dei dibattiti sul velo islamico, i piatti a base di maiale alla mensa, le moschee. Lungi dal risolvere il problema, lo fomentano, per mantenere la frontiera tra «noi» e «loro». È un mezzo per creare un «noi», sfruttando paura e risentimento. Il peggio è che molti, a sinistra, si sono lasciati prendere da questa logica negativa. Per esempio, ci parlano molto della Repubblica; ma non è più questione di «integrare» ma piuttosto di «integrarsi». Vale a dire che i «giovani», stranieri o francesi, sono un problema e che questo è un problema loro, non il nostro.

Più in generale, a un mese dalle regionali con la minaccia di un’impennata del voto all’estrema destra, come risponde alla domanda posta dall’artista Anish Kapoor (dopo il vandalismo su una sua opera, a Versailles): ma cosa sta succedendo in questo paese?
Non si tratta soltanto di razzismo né unicamente dell’estrema destra. La situazione è ben più grave: stiamo asssitendo a una razializzazione della nazione. Quando l’eurodeputata Nadine Morano afferma che «la Francia è un paese giudeo-cristiano di razza bianca», certo, persino a destra, cioè nel suo campo, hanno protestato. Ma purtroppo questa ex ministra rivela quello che sta succedendo – ieri con Nicolas Sarkozy, oggi con François Hollande. Evidentemente, non è questione di darle ragione, ma bisogna ammettere che Morano dice in modo crudo ciò che fanno i nostri politici che invece si presentano come i paladini di un antirazzismo morale. I governi succesivi razializzano la Francia lasciando agire (o fomentando) le discriminazioni, abbandonando i quartieri alla relegazione, organizzando la segregazione. Dopo gli attacchi contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher a gennaio, Manuel Valls ha dichiarato: «un apartheid territoriale, sociale, etnico si è imposto nel nostro paese». Da un lato, significava prendere atto della realtà; dall’altro, però, era una negazione della spiegazione e quindi della responsabilità. L’apartheid non si è imposto da solo; è il risultato di una politica. La razializzazione della società francese è la conseguenza di una politica di razializzazione. È ciò che denunciamo con il collettivo Riprendiamo l’iniziativa, cercando di mostrare che è possibile superare la razializzazione che, oggi, minaccia persino l’antirazzismo.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento