«Il conflitto non ci aveva segnato così tanto neanche quando eravamo in trincea, perché il silenzio e la puzza di quest’obitorio sono la punta più affilata, il segno più tangibile di quel grande inganno che è la guerra». A Donetsk, nell’ultima tappa prima della sepoltura, non c’è «nulla di poetico o potente, nessun nazionalismo giusto, neanche l’ombra di un nemico: cadaveri a terra, maciullati tutti allo stesso modo».

RESTA SOLO UN ODORE insopportabile che i vivi provano a fermare con fazzoletti o mascherine, una sigaretta dietro l’altra o ampie dosi di alcol sin dal mattino presto. Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi sono andati ad annusarlo. Vogliono conoscere le persone che si ammazzano da un lato e dall’altro del fronte. Vogliono vedere per raccontare. Vogliono capire. Si sono diretti nel sud dell’Ucraina pensando di incrociare la guerra di Spagna del nuovo millennio. Ma «le partenze sono fatte così», scrivono, «parti sempre con una tua idea ma è quella sbagliata».

Da un lato le bandiere con falce e martello si mischiano a quelle zariste e putiniane. Le armi e il cirillico confondono le carte, non siamo nel Novecento. Accanto ai «compagni internazionalisti» ci sono i camerati. «Quaggiù io mi sento antifascista – dice Andrea, un estremista di destra proveniente da Lucca – L’antifascismo russo fa rima con patria, tradizione».

Dall’altro lato il nazionalismo sa di rancore per Mosca e il comunismo. Le statue di Lenin sono tirate giù o macchiate di blu e giallo. A volte sfilano svastiche e rune. Il sentimento della patria è gridato in piazza, ma anche covato nel profondo. Può venir fuori con l’aumento del tasso alcolemico. «Odiavano tutto ciò che è russo. Discutiamo della Crimea: “Now it’s Russia”, diciamo noi. E Iosif, di rimando: “Crimea it’s not Russia. Crimea it’s Ukrania”. Il loro è un nazionalismo testardo, tenace, completamente astratto dalla realtà».

Queste fotografie non sono state scattate negli ultimi quattro mesi. Risalgono al 2015. La guerra per il Donbass è iniziata da un annetto e i due giovani cronisti ci si sono tuffati dentro. Sono mossi da un’insaziabile curiosità, da un progetto quasi disperato di rimettere insieme quanti più pezzi possibile per assemblare un puzzle della guerra. Ogni volta vogliono fare un passo in più: avvicinarsi alla linea del fronte, strisciare nelle trincee, arrampicarsi sulla torretta da dove sparano i cecchini.

INCONTRANO I NOSTALGICI dell’Urss e il giorno dopo i fascisti di Svoboda. Salgono in caserme o palazzi dei diversi governi e scendono tra gli sfollati nascosti nei rifugi sotterranei. Collezionano un album di personaggi che non sono figurine, ma esseri umani in carne e ossa. Con paure, passioni, limiti. L’insegnante-poetessa che continua le lezioni sotto terra. Il capo militare che risponde a una telefonata della mamma mentre piovono proiettili: va tutto bene, sono al sicuro.

In guerra Sceresini e Giffoni sono attratti da qualcosa che lasciano intendere ma non nominano. Quando rientrano in Italia si portano addosso la sensazione del ladro che ha preso quello che voleva ed è scappato via. Si chiedono perché fuori da lì nessuno parli di quel conflitto. Si interrogano sul loro lavoro di giornalisti, sulla possibilità di aver sbagliato qualcosa, di non aver fatto abbastanza. Sette anni dopo, però, il loro libro La guerra che non c’è deve essere ripubblicato con un nuovo titolo: La guerra che non c’era (Baldini+Castoldi, euro 18, pp. 272).

Lo scontro tra esercito ucraino filo-occidentale e i volontari del Donbass sostenuti dai russi è diventato più grande. Ha coinvolto gli imperi. C’è stata un’invasione. Piovono missili su Kiev e le principali città. Muoiono a migliaia. Si parla di atomiche «tattiche» e nuova Guerra fredda. Tutti gli occhi guardano verso quella che era iniziata come «la prima guerra civile europea del XXI secolo» e potrebbe diventare il Terzo conflitto mondiale.