Didier Eribon, anatomia di un «corpo di classe»
Gigli / foto Getty Images
Cultura

Didier Eribon, anatomia di un «corpo di classe»

INTERVISTA Parla il sociologo e filosofo francese sul suo «Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo» (L’orma). La protagonista del libro è la madre dell’autore, ricoverata in una Rsa perché non più autosufficiente. «Posso politicizzare il tema della vecchiaia, delle case di riposo, nel nostro sistema sanitario alla luce dell’impossibilità per le persone anziane di prendere parola»
Pubblicato 5 mesi faEdizione del 29 maggio 2024

Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo (L’orma, pp. 252, euro 21, traduzione di Annalisa Romani) del sociologo francese Didier Eribon ricostruisce l’itinerario esistenziale della madre dell’autore con lo stesso metodo dell’auto-socio-analisi sperimentato con il precedente Ritorno a Reims (2009. E in edizione italiana, per Bompiani, nel 2017) che calava la storia personale di Eribon e della sua famiglia nel contesto delle dinamiche sociali e politiche del secondo Novecento in Francia tra lotte operaie, migrazioni, urbanizzazione, movimenti studenteschi ed emancipazione gay. In entrambi i libri, la vita vissuta si fa oggetto di un’indagine che porta a compimento quegli «elementi di autoanalisi» che Pierre Bourdieu aveva tratteggiato nel suo Questa non è un’autobiografia.

La memoria incontra la critica sociale, la narrazione si intreccia all’analisi filosofica e il commento di passi letterari (da Annie Ernaux, Simone de Beauvoir, Albert Cohen, Bohumil Hrabal, Shichiro Fukazawa o J.M. Coetzee) dà l’avvio a riflessioni a cavallo tra denuncia politica e scrittura del sé. Eribon, che abbiamo incontrato a Torino in occasione del Salone del Libro, scrive del corpo della madre come «corpo di classe» a cui da giovane non sono state risparmiate le pene di una vita da donna delle pulizie, poi operaia e casalinga, e infine le vessazioni di un sistema sanitario inadeguato. Eribon ha spiegato che uno dei sentimenti da cui muove il suo libro è la gratitudine verso chi con fatica e sacrifici gli ha permesso di studiare e di diventare ciò che è.

«Ritorno a Reims» era un libro sulla vergogna sociale e sul conflitto mai sanato con il padre che si chiudeva con il rimpianto «di avere lasciato che la violenza del mondo sociale prevalesse su di me, come aveva prevalso su di lui». Con sua madre invece non è andata così.
Mio padre lo detestavo, mia madre no anche se i rapporti con lei erano difficili soprattutto per il suo razzismo insopportabile. Però non era omofoba, come invece era mio padre. Da giovane avevo deciso che non volevo più essere il figlio dei miei genitori, volevo costruire la mia vita a Parigi, seguendo la traiettoria classica del giovane gay, ma dopo la morte di mio padre mi sono reso conto che non sapevo niente della giovinezza dei miei. Volevo capire quel che avevano vissuto e così ho iniziato a interrogare mia madre, a chiederle delle canzoni, dei film, degli attori che aveva amato. Volevo situare l’individuo, il suo modo di vedere il mondo, di esprimersi, in un contesto geografico, storico, sociale. Mi interessava fare quel che scrive György Lukács a proposito di Balzac i cui personaggi sono l’incarnazione di tipi sociali come lo è stata mia madre.

Lei racconta la sofferenza di sua madre durante il ricovero in una Rsa che l’ha indotta a lasciarsi morire. Scrive che «la sua rabbia trovava come unico destinatario la mia segreteria telefonica. Erano frasi dalla dimensione eminentemente politica… la denuncia di un’istituzione, di un sistema e dei loro effetti sulla vita delle persone come lei. Mia madre piangeva, ma non aveva accesso alla parola, quantomeno a quella pubblica» ed è per dare voce a questa rabbia che ha scritto «Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo». È possibile che solo la scrittura riscatti l’impotenza di un figlio?
Quando mia madre ha smesso di essere autosufficiente, è stato necessario ricoverarla in una Rsa perché nessuno di noi fratelli poteva prenderla in casa né avrebbe avuto le competenze per accudirla. Ma le case di riposo spesso mancano di personale, razionano il cibo, le docce, non hanno i mezzi per garantire una qualità di vita decente agli ospiti. È un problema di tagli alla sanità pubblica ma si trovano situazioni scandalose anche in certe strutture private, come denunciato dall’inchiesta di Victor Castanet che racconta dei maltrattamenti in una struttura la cui retta arrivava a diecimila euro al mese. Noi non ce la saremmo mai potuta permettere ma quel che è certo è che mia madre è precipitata subito in quella che si chiama «sindrome da scivolamento» per cui lo shock associato alla vulnerabilità dell’età avanzata l’ha indotta a un declino rapidissimo che mi ha preso in contropiede.

Oggi mi pento di non averle fatto visita tutti i giorni, anche se sarebbe stato impossibile, e forse il suo decadimento era oramai inesorabile. L’unica cosa che ho potuto fare è politicizzare il tema della vecchiaia, delle case di riposo, nel nostro sistema sanitario alla luce dell’impossibilità per le persone anziane di prendere parola, di costruire un movimento sociale, di scendere in piazza. Posso farmi portavoce delle loro sofferenze e delle ingiustizie che subiscono. Posso fare come ha fatto nel 1970 Simone de Beauvoir scrivendo quel libro immenso e poco letto che è La terza età. Posso riflettere su cosa significa invecchiare per le classi operaie, per le donne di classe operaia.

Lei racconta il suo senso di colpa ma non cede al rimpianto di un’organizzazione famigliare tradizionale in cui diverse generazioni vivevano nella stessa casa, perché?
Perché non credo che vivere con i propri famigliari sia una soluzione, il peso della cura finirebbe sempre e comunque sulle spalle delle donne senza che queste magari lo desiderino, e sappiamo che schiavitù può essere il lavoro di cura. Norbert Elias ne parla ne La solitudine del morente: l’esasperazione, la fatica possono dar luogo a forme di maltrattamento o di cinismo per cui al fine di intascare l’eredità si porta il parente anziano alla morte. La famiglia non è mai una garanzia di amore.

Dopo aver votato a lungo comunista, sua madre era passata all’estrema destra: è la paura di una società divenuta troppo complessa a determinare il voto frontista?
Per quindici anni mia madre ha lavorato in una fabbrica molto sindacalizzata, partecipava agli scioperi, era parte di una collettività. Poi è stata messa in prepensionamento e si è ritrovata isolata davanti alla televisione. La sua percezione del mondo è cambiata, ha iniziato a temere l’immigrazione, l’insicurezza e tutte le minacce esasperate dalle destre e dai media che oggi in Francia sono in mano a grandi gruppi finanziari il cui interesse non è diffondere la libertà di espressione e di movimento. Lei, che era figlia di un muratore immigrato dalla Spagna, si scagliava contro gli immigrati. I sondaggi dicono che alle europee il 55% delle classi popolari voterà l’estrema destra il che è spaventoso, è un voto di protesta contro le élites, come l’astensionismo. Che partecipazione politica ci aspettiamo in un paese che ha represso con la violenza un movimento popolare come i gilet gialli? C’è gente che ha perso un occhio, decine di mascelle sfondate, crani spaccati a colpi di manganello. Macron ha fatto in modo che a chiunque passasse la voglia di scendere in piazza a manifestare il proprio dissenso. Senza parlare dello smantellamento sistematico dei servizi pubblici non redditizi. Si chiudono interi reparti ospedalieri, uffici postali, stazioni ferroviarie, si limitano le fermate dei treni, si riduce il corpo insegnante nelle scuole; e nelle città piccole questo ha delle conseguenze. Negli Stati Uniti il grosso del consenso a Trump viene da stati deindustrializzati come la Pennsylvania o l’Ohio. Ma quando governa la destra i servizi non vengono certo ripristinati.

Non solo le persone anziane non possono parlare ma anche se parlano non sono ascoltate. Nessuno vuol sentire parlare di vecchiaia, malattia e morte. È lo stesso per i pazienti oncologici, soprattutto i malati terminali: come si creano le condizioni di ascolto?
Gli anziani sono all’estremo di un continuum in cui parlare e farsi ascoltare è difficile. Penso a quanto avvenuto con l’AIDS: all’inizio le persone sieropositive erano invisibili e inascoltabili ma Act-Up e altri hanno trovato il modo per cambiare le cose. Per gli anziani non è possibile organizzarsi e tocca a qualcun altro parlare per loro. Come disse Aimée Césaire: «La mia bocca sarà la bocca delle sofferenze che non hanno bocca, la mia voce sarà la libertà delle voci che si piegano di fronte alla cella della disperazione». Lui parlava del popolo colonizzato della Martinica, io invece della scrittura come passaggio di testimone.

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