Si è stranieri nel nostro profondo e dappertutto, spiega il brasiliano Adriano Pedrosa, curatore della 60/a Esposizione d’arte internazionale di Venezia (che si terrà dal 20 aprile al 24 novembre), ma di certo qualcuno lo è più di altri. Sono gli outsider, i popoli indigeni, coloro che sono stati spinti ai margini o perseguitati perché ribelli a sessualità imposte, queer.
Foreigners Everywhere è la scritta che campeggerà nelle diverse parti in cui si articola la manifestazione e, soprattutto, in molte lingue, alcune morte, riprendendo i lavori al neon del collettivo Claire Fontaine e anche il nome di un collettivo torinese impegnato negli anni Novanta contro razzismo e xenofobia.
Introdotto dal presidente uscente Roberto Cicutto – che ha compiuto il passaggio di testimone introducendo il suo successore Pierangelo Buttafuoco e con l’occasione ricordato l’autonomia dei direttori artistici e il valore profetico dei temi affrontati in varie Biennali– Pedrosa non sembra aver avuto dubbi nel suo compito di confezionare una difficile edizione sia per la deflagrazione del mondo che la accoglie sia per il successo conseguito dalla 59/a Biennale di Cecilia Alemani. Un’edizione che tutto sommato lui non sconfessa, ponendosi su una linea concettuale parallela, alla ricerca delle radici negate, in continuità pure con l’impianto voluto da Lesley Lokko per l’Architettura.

M_Bordadoras de Isla Negra
Erika Rutheford

L’IDEA è quella di rovesciare la storia, tentando di riscriverla a partire da un «perturbante freudiano che in portoghese si traduce proprio con o estranho. Così, nel presentare la sua mostra, sentendosi coinvolto anche a livello personale («ho vissuto all’estero e ho sperimentato il trattamento riservato a uno straniero del Sud del mondo; d’altro canto, il Brasile è patria di molti esodi; inoltre, mi identifico anche come queer»), il curatore ha chiamato oltre trecento artiste e artisti a rappresentare questo ribaltamento dei canoni estetici del modernismo euro e americanocentrico, a partire dall’energia prorompente della propria identità. Un discorso questo che necessita sempre di un banco di prova (la mostra, ovviamente) perché il rischio in agguato è quello della spettacolarizzazione e dell’integrazione per via di «divoramento» della diversità altrui, con esiti neoliberisti. Sarà una Biennale-palcoscenico per gli artisti diasporici (una sezione esplorerà italiani e italiane all’estero, appunto, «stranieri ovunque» e, naturalmente, ci sarà Lina Bo Bardi) e per la creatività indigena, per quei trasmettitori consapevoli della sapienza nativa – non a caso, la tecnica della lavorazione tessile sarà un leit motiv di questa rassegna. Per Pedrosa la decolonizzazione è una parola imprescindibile, cui a corollario rispondono tutte le opere selezionate. L’altra è emigrazione, setacciata pure attraverso i materiali degli archivi della disobbedienza, sui quali da anni lavora Marco Scotini.
E, come già Alemani fece per le artiste poco conosciute, anche il curatore brasiliano ha deciso di creare delle capsule del tempo storiche per evidenziare ciò che nel XX secolo non si è saputo vedere: linguaggi offuscati riemergono con il loro potere generativo (numerosi gli artisti non più viventi e da «riscoprire»). Ci tiene Pedrosa a inanellare una lunga lista di paesi di provenienza degli invitati. Molti, quasi tutti, arrivano o hanno vissuto nell’America del Sud e centrale, Africa, estreme propaggini asiatiche, Medioriente, a testimonianza del fatto che il mondo è stato abitato da una moltitudine di culture, alcune rimaste sommerse o considerate fenomeni locali. Prova ne sarà la sezione «Ritratti» cui seguirà una sezione-sorella sull’«Astrattismo», stimolando una serie di riflessioni intorno a temi già dibattuti in Occidente, ma che hanno assunto nei «paesi lontani» un’altra accezione. Per esempio, la figura umana si è continuata a indagare e l’astrattismo ha privilegiato forme sinuose e organiche con colori vivaci, opposte a quelle geometriche cui siamo abituati.

FORTI SARANNO pure i legami di sangue, i vincoli famigliari – coppie di artisti padre e figlio, nonna e nipote, marito e moglie, fratelli, per sottolineare la trasmissione di linguaggi e del patrimonio ancestrale con il bagaglio di leggende e storie narrate.
«C’è un urgente bisogno di imparare di più. Ho scelto artisti che non hanno mai partecipato alla Biennale se non in eventi collaterali o in padiglioni nazionali. Ho poi dedicato un’attenzione particolare alle installazioni all’aperto: all’Arsenale ci sarà Anna Maria Maiolino (vincitrice del Leone d’oro alla carriera, ndr)».
Un grande murales del collettivo brasiliano Mahku sarà il biglietto da visita all’entrata del padiglione Centrale ai Giardini, mentre alle Corderie, a dare il benvenuto, ci saranno i Maori.

 

SCHEDA

John Akonfrah

Sono 90 i paesi che espongono nei padiglioni nazionali, con 4 new entry: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Leste e Repubblica Unita della Tanzania. Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal partecipano invece per la prima volta con un proprio padiglione. In molti hanno risposto al tema generale della mostra. Se il Benin guarderà alla tratta degli schiavi, all’Amazzone e alla religione voodoo, il Canada si affiderà a Kapwani Kiwanga, che riporta alla luce storie emarginate. Gli Stati uniti presenteranno per la prima volta un artista indigeno il cherokee Jeffrey Gibson, la Svizzera proporrà il brasiliano Guerreiro do Divino Amor, la Gran Bretagna il filmmaker John Akomfrah che lavora sulle eredità postcoloniali. La coreana Koo Jeong-a con la sua Odorama City risveglierà ricordi collettivi e di appartenenza. Il Cile, con Cosmonación, punterà sui concetti di nazione, esilio e diaspora. Il Brasile cambierà nome in omaggio ai nativi: Hãhãwpuá Pavilion.