Si intensificano finalmente gli studi specifici dedicati a un dilangante fenomeno sociale, la disuguaglianza. Un temaricorrente da anni nella letteratura sul nostro tempo. Fa epoca, per così dire, l’indagine – frutto di 25 anni di lavoro in comune – di R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le società infelici (Feltrinelli) che ha avuto il grande merito di mostrare come la disuguaglianza crei marginalità, analfabetismo, devianza, malattie e in genere una catena di patologie sociali che spiegano solarmente il fallimento strategico di chi le ha prodotte: il capitalismo neoliberista degli ultimi 30 anni. In questo 2013 è uscito l’ultimo libro di Joseph Stglitz, Il prezzo della disuguglianza (Einaudi, «il manifesto» del 9/04/2013) e un testo dedicato specificamente all’Italia, sia pure in una cornice internazionale. Il saggio in questione è Chi troppo chi niente (Bur, pp. 221, euro 11) di Emanuele Ferragina.
La possibile coalizione
Ferragina è un giovane calabrese di appena 30 anni, ricercatore presso la Oxford University e che ha al suo attivo, oltre a vari saggi, un documentato studio di indagine comparata, Social capital in Europe. A comparative regional analysis pubblicato nel Regno Unito lo scorso anno. Il testo di Ferragina merita di essere per essere scritto senza ombra di pedanteria accademica ed anzi con semplicità e passione, addirittura con evidenti intenzionalità di politica riformatrice. Dopo aver passato in rassegna le multiformi figure di lavoratori poveri, disoccupati, precari, occupati in nero, l’autore conclude: «Si tratta di una “coalizione potenziale” di più di venticinque milioni di voti, che oggi si trova a votare partiti diversi afferenti all’intero arco costituzionale… Un tale elettorato potrebbe sovvertire la geografia del voto se solo fosse mobilizzato attraverso il principio chiaro, trasparente e unificante, dell’ uguaglianza». Ma certo il merito maggiore del libro si condensa nella capacità di mostrare come la disuguaglianza mini gravemente l’economia e il suo dinamismo, mostrando con dovizia di dati il fallimento non più camuffabile delle strategie classiste che l’hanno generato.
Ferragina osa anche di più quando afferma: «per migliorare la situazione economica di un paese, ridurre le disparità è più utile che incrementare il reddito pro capite». Il che vuol dire che invocare indistintamente la crescita è meno incisivo se non erroneo anche rispetto all’obiettivo perseguito. L’Italia è uno straordinario e perverso laboratorio per mostrare tale assunto. Da almeno 30 anni il nostro Paese è un campione mondiale di disuguaglianza: tra i 34 paesi dell’Ocse ci piazziamo degnamente al quinto posto dietro Messico, Turchia, Portogallo e Stati Uniti. E da noi il legame tra l’iniquità della distribuzione dei redditi e lo stato di stagnazione dell’economia, i bassi salari, la disoccupazione diffusa, la marginalità delle nuove generazioni, l’immobilismo sociale, è evidentissimo.
In un brillante capitolo dedicato al nostro Mezzogiorno, Ferragina demolisce inoltre alcuni luoghi comuni sociologici, che tanta fortuna hanno avuto nel nostro paese. La categoria del familismo amorale, assunta dal sociologo americano Edward Banfield a spiegazione dell’«arretratezza»meridionale, o quella della mancanza di senso civico dei cittadini del Sud, teorizzata da una altro acclamato sociologo americano, Robert Putnam. Riprendendo un’osservazione di Tocqueville, Ferragina mostra che il dato culturale non è immutabile, ed esso è legato e si evolve insieme alle condizioni sociali. In realtà proprio la disuguaglianza, costringe gli emarginati a rinserrarsi nel nucleo familiare, a chiudersi nella propria singolarità e a trascurare la dimensione dell’azione collettiva. E certo non a caso le ragioni dove la disuguaglianza è cresciuta di più, Calabria, Campania, Sicilia Puglia, Molise, Abruzzo, Sardegna oggi sono «quelle con i livelli più bassi di capitale sociale». Termine che non amo, per indicare coesione sociale e senso civico.
Tutele inesistenti
Centrali tuttavia sono i capitoli dedicati agli ordini professionali trasformatisi, in gran parte, in inaccessibili corporazioni medievali. Particolarmente odioso quello degli avvocati, che sottopongono i giovani aspiranti a forme di angherie in nulla diverse da quelle imposte dai baroni ai contadini sotto la legislazione feudale. E parimenti densi sono i capitoli dedicati a vari aspetti del welfare state e al mercato del lavoro. In quest’ultimo caso Ferragina mostra il fallimento del riforma Fornero, che ha aggravato la situazione preesistente: quella di un sistema di accesso al lavoro e di tutele inefficiente e ingiusto. «Nel triennio 2008-2010, 1,6 milioni di disoccupati non hanno ricevuto alcun sostegno», perché, come i circa 3 milioni di lavoratori in nero, non sono protetti dalla cassa integrazione e non godono di altre protezioni.
Ma chi troppo chi niente non è un cahier de doleance, tra i tanti che affollano le nostre librerie. Le proposte di riforma che sono avanzate nel testo fanno un contrappunto incalzante alle analisi e alle denunce, componendo un quadro progettuale di riforme semplice e persuasivo. A cominciare dalla proposta del reddito minimo, discussa in comparazione con i tanti paesi europei in cui esso vige da tempo.