Ritratto di uomo che guarda in macchina come in uno specchio. Il petto perforato dagli aghi invadenti della chemioterapia, lo sguardo perso tra i buchi neri fra gli scogli. In bagno, mentre si fa riprendere, riesce a stento a infilarsi la maglietta, il lavandino si riempie di capelli e i suoi programmi si rimpiccioliscono al puro qui e ora. Ma non ci sono solo momenti deprivanti. Ecco, ora prepara un risotto zucchine e zenzero, ora il suo volto bersagliato dalla malattia si rischiara scherzando al telefono con un amico, ora piange ascoltando il suono di una tromba al sorgere del sole alla festa che ha voluto per celebrare il suo essere vivo oltre il buio e il silenzio.

Perché Nicola Difino, Nick, food performer, ovvero artista e filosofo del cibo (“mangiare è un atto politico” lo sentiamo dire in tv), avendo scoperto di avere un Linfoma non-Hodgkin, sceglie di riprendersi e di farsi riprendere in quello che poi diventerà Alla salute, il documentario di Brunella Filì, premiato dal pubblico e col Lifetales Award nei giorni scorsi al Biografilm Festival di Bologna? Su questo abbiamo indagato con la regista, chiedendole anche fin dove – da Nanni Moretti a Mattia Torre – possa spingersi il “diario di un dolore”. E se in questo caso sarebbe stato forse auspicabile riuscire a stare più a lungo a contatto con la camera oscura della sofferenza, veniamo a scoprire come in questa coraggiosa odissea tra farmaci e cibo, vita e morte, abissi e levità, al gusto delle ricette/riflessioni degli amici chef (Roy Paci, DonPasta, Paola Maugeri, Simone Salvini e Diego Rossi), le cose siano andate diversamente.

Come vi siete conosciuti?

Cinque anni fa tramite mio padre, che Nick aveva incontrato per lavoro. Siamo entrambi pugliesi e subito abbiamo lavorato insieme a un cortometraggio, Terronia, che racconta le storie di alcuni braccianti dell’Agro di Rutigliano, dove Nick vive.

Per quali vie siete arrivati al documentario, che ha una genesi particolare: muove da una richiesta.

Nel marzo 2015 ho ricevuto una telefonata di Nick. Mi disse che aveva un cancro, che stava per iniziare la terapia e che aveva preso la decisione di provare a esorcizzare con un documentario. Per questo gli occorreva il mio aiuto. Rimasi stordita, muta. Alla parola ’cancro’ mi si era accapponata la pelle, avevo risentito quello che era accaduto a mio padre. Gli chiesi qualche giorno per metabolizzare ma pensavo che non sarei mai riuscita a fare un film, senza nemmeno sapere come sarebbe andata a finire. Più avanti però, dopo aver parlato ancora con lui, gli proposi di tenere un diario filmato, dandogli qualche indicazione per un ipotetico futuro montaggio. Ogni tanto nel frattempo lo intervistavo, anche se allora non pensavo che tutto questo sarebbe diventato un film, ma soltanto una testimonianza privata.

E poi?

A un certo punto Nick ha deciso di fare outing della malattia. Diceva: mi sto impegnando a essere vivo. Quando poi è andato in remissione, mi sono sentita abbastanza tranquilla da affrontare la mole del materiale che aveva ripreso. Lì ho trovato qualcosa di molto diverso da alcuni film sulla malattia, sia pure molto belli, che conoscevo. Ho capito che potevo fare un documentario sulla vita, sull’ascolto del corpo, sugli affetti e su quei piccoli momenti di felicità che spesso dimentichiamo. A lungo poi ci siamo interrogati su come trattare il tabù della morte. Alla fine ci siamo affidati al suo essere antidoto alla paura e alla trasformazione dello spirito.

Il film è fatto di tanti momenti in cui Nick guarda in macchina, secondo te a chi si sta rivolgendo?

Gliel’ho chiesto. Ha risposto che gli è facile astrarsi in personaggio. Per lui quello che appariva in video era una sorta di alter ego, un talismano, un occhio magico su cui riversare il suo vissuto. Così è avvenuto a uno spettatore che a fine proiezione ci ha raccontato di aver fatto la stessa cosa tramite i suoi dipinti.

Il riprendersi può essere un modo per non affrontare da solo il dolore più oscuro? Penso a quando chiede di spegnere la camera durante la chemio, come un segnalare all’esterno una soglia di dolore.

In realtà in quei momenti spesso spegneva, ma poco dopo riaccendeva. Si forzava a farlo. Ma a rivedere il girato emerge una immagine di sé meno autentica. Così al montaggio abbiamo fatto un lavoro di asciugatura che mette in risalto la sua parte più vera.

Considerata la personalità forte, decisionista di Nick, come ti sei relazionata a lui da regista?

É stato un nodo delicato. Gli ho fatto comprendere che se voleva il mio apporto e quello delle persone che avrei coinvolto (Antonella Gaeta per la scrittura, Andrea Facchini al montaggio), doveva lasciarmi le redini. Lui prima ha resistito, poi durante le registrazioni dei colloqui con gli chef e al montaggio non si è fatto vivo. Così, quando gli ho mostrato il primo rough cut (montaggio grezzo, ndr) si è lasciato andare al pianto. E anch’io. Ha apprezzato questa visione più fragile di sé, oltre il doversi mostrare come un supereroe e oltre le armature dovute alla sovraesposizione del suo lavoro.

Usi la stessa materia per esprimere il dolore più brutale e la rinascita: il mare.

L’elemento acquatico per me è ricorrente. Il mio primo film (Emergency exit, ndr), finiva con una serie di tuffi. Qui l’ho visto come l’immergersi in un utero, lo stare dentro in apnea e quindi rinascere, perché tutto è circolare. A lungo, poi, abbiamo lavorato sul suono per ricreare la suggestione della camera anecoica di cui parla Roy Paci, quello stato in cui ogni rumore si eclissa. In più Nick ha una devozione per il mare, che gli era proibito. Lo vediamo bagnarsi i piedi ed essere risucchiato nelle profondità.

Secondo te era possibile riuscire a stare più accanto alla sua sofferenza?

Forse sì. Ma a un certo punto ci siamo ritrovati senza materiali. Lui ha spento la camera e non l’ha più riaccesa: finché non hanno ricominciato a ricrescergli i capelli…