Diario di paesaggista firmato dall’Anglista
Thomas Jones, "Diario di viaggio a Roma e Napoli 1776-1783", Quodlibet, a cura di Maria Giuseppina Di Monte ed Emilia Ludovici Fra le carte di Mario Praz è rispuntata la traduzione dei Memoirs dell'artista inglese. Un documento sociale frivolo-tragico a fronte di un'opera pittorica contrassegnata da un «esprit de géométrie» azzurro e polveroso all’ombra del Vesuvio
Thomas Jones, "Diario di viaggio a Roma e Napoli 1776-1783", Quodlibet, a cura di Maria Giuseppina Di Monte ed Emilia Ludovici Fra le carte di Mario Praz è rispuntata la traduzione dei Memoirs dell'artista inglese. Un documento sociale frivolo-tragico a fronte di un'opera pittorica contrassegnata da un «esprit de géométrie» azzurro e polveroso all’ombra del Vesuvio
La storia dei Memoirs di Thomas Jones è singolare: sono opera di un artista figurativo ma l’artista è rimasto sconosciuto fino a che non ne è stata pubblicato lo scritto. La sua fama di pittore, cioè, è stata totalmente dipendente da quella di ‘scrittore’, al punto che qualche anno dopo l’apparizione inglese dei Memoirs, nel 1951, ben cinquantotto sue opere vengono messe all’asta, acquistate da mercanti d’arte e rivendute a collezionisti privati. Poteva essere lo spegnimento di una folgorante popolarità e invece…
Allineiamo i fatti: nel 1951 A. P. Oppe pubblica in «The Volume of Walpole Society» n. 32 Memoirs of Thomas Jones. Penkerrig Radnoshire 1803 (luogo e anno della morte di Jones, che già da un ventennio era tornato in patria dall’Italia); nel 1954 avviene la dispersione delle opere di cui abbiamo detto, e il suo comincia a diventare un nome rilevante tra i vedutisti e a comparire sempre più spesso in articoli e mostre.
Nel 1990, nel catalogo della mostra napoletana All’ombra del Vesuvio, Lindsay Stainton pubblica un saggio sui pittori inglesi a Napoli nel Sette e Ottocento dedicando molto spazio a Jones e citando vari passi dei Memoirs. Nel 2001, in occasione della mostra parigina Paysages d’Italie. Les peintres du plein air 1780-1830, curata da Anna Ottani Cavina, i Memoirs vengono tradotti in francese; la stessa Ottani ne cura nel 2003 la versione italiana annotata, per l’Electa, con un’introduzione poi riapparsa nel volume Terre senz’ombra (Adelphi, 2015).
L’editore Quodlibet pubblica adesso una nuova traduzione dei Memoirs, esemplare per aderenza allo spirito particolare del testo, sempre oscillante tra il frivolo e il drammatico: autore Mario Praz. La versione, compiuta forse per diletto o per una qualche committenza, è stata ritrovata fra le carte dell’anglista e risale, si può credere, al periodo in cui egli scrisse un breve saggio su Jones, 1957, poi raccolto in Panopticon Romano (1967), e che fa da base all’introduzione d’autore oggi pubblicata nel nuovo volume, curato da Maria Giuseppina Di Monte, direttrice del Museo Praz, ed Emilia Ludovici, con il titolo Diario di viaggio a Roma e Napoli 1776-1783 (pp. 259, 21 immagini colore, euro 24,00).
Sulle ragioni del successo dei Memoirs scrive parole illuminanti lo stesso Praz: «È uno dei più informativi e divertenti racconti di viaggiatori che si possan leggere perché, a differenza della maggior parte di tali opere, dà poco spazio alla visita dei monumenti e molto alle personali vicende, ai contatti sociali e alle dicerie»; assai diverso, dunque, dallo «spirito terra terra… che rende assai deludenti i resoconti di viaggio di questo secolo, come del resto dei precedenti».
In realtà il Diario è molto più del resoconto del viaggio a Roma e a Napoli, come recita il titolo, ma investe quasi tutta la vita di Jones, a partire da quando diventa allievo di Richard Wilson – il primo paesaggista inglese arrivato in Italia, nel 1750, dove trasformò la sua pittura sotto l’influsso delle ‘sensuali’ vedute di Claude-Joseph Vernet – e poi, attraverso le innumerevoli e quasi sempre disastrose gite in barca, caccie, incontri, recite e riunioni di artisti, crolli nervosi e deludenti incarichi, giunge al 16 settembre 1776, giorno in cui parte per l’Italia.
Per arrivare nel nostro paese dovrà viaggiare a cavallo e in nave, poi in diligenza, dormire in locande più o meno sporche. Il 4 novembre valica il Moncenisio, le cui rocce sono «grigie, bianco e alabastro e nera ardesia»; nonostante la neve, nel versante sud fa caldo e, per la prima volta, può osservare le lucertole crogiolarsi al sole. La vita a Roma, poi a Napoli, e di nuovo a Roma, e ancora a Napoli, è singolarmente simile a quella inglese, a parte i furti, le risse, Villa Adriana e Villa d’Este, una sottaciuta moglie, il Vesuvio, Pompei, il Golfo… una giostra di incontri con i connazionali, cene, gite, apprensive visite a possibili committenti e un continuo sorgere e tramontare di amicizie e inimicizie: tutti sono affaccendati nella ricerca di una vita migliore, più divertente e più dolce in questa «terra magica».
E il Jones artista, che Praz non mostrò di apprezzare poi troppo? Dagli studi minuziosi dei luoghi visitati a Roma e Napoli, alle grandi composizioni con i paesaggi gallesi e italiani, dalle vedute di soggetto mitologico ai ‘ritratti’ delle fastose residenze di Lord ed Esquire, quasi tutto si conosce della sua opera. Ma ciò che la rende particolarmente popolare sono proprio i paesaggi napoletani, esposti sempre più spesso, dalla mostra del 1990 alla grande antologica del 2004 alla National Gallery di Londra, quando finalmente si riusciva ad apprezzarlo per la duttilità di soluzioni formali, anche accademiche, che rimarcava comunque la centralità poetica delle piccole vedute napoletane.
Jones, fra tutti i vedutisti stranieri che hanno visitato l’Italia, e Napoli in particolare, è un paesaggista assolutamente originale. Della capitale borbonica non gli interessano né le rovine né gli scorci pittoreschi ma l’esprit de géométrie che li governa: una tramatura – quasi un commesso marmoreo – dove si succedono piani verticali sormontati da una lastra cerulea come una pietra rara, che chiameremo cielo per comodità.
Non c’è lo sguardo d’aquila di Lusieri né l’altezzoso compitare di Hackert in questi frammenti urbani, ma uno spirito più libero e coraggioso, attento alla testura dei vecchi muri, alla trama geometrica creata nello spazio da superfici terrose che si scaglionano una dietro l’altra fino all’ultimo, azzurrissimo ritaglio.
Dove ha trovato questo coraggio Jones? Forse in qualche quadro misterioso popolato di casette squadrate e terrose, seminascoste da un muro bianco corroso dalla salsedine, come si possono vedere nel Museo di San Martino? Oppure, come scrive nel maggio del 1781, rientrato a Napoli da Roma: «Quando mi stancavo delle altre cose dipingevo la veduta dalla mia cucina per distensione e per svago», quasi un spiraglio di libertà dagli obblighi professionali e mondani.
Quale che sia il motivo della sua scelta, che gli inibirà il favore dei collezionisti di vedute (massime di Lord Hamilton), si tratta di una volontà ben precisa ed è dimostrato dalla sua capacità, in altre circostanze, di creare opere più accomodanti al gusto corrente, à la Wilson, il maestro al quale riconosce di avergli trasmesso il fascino dell’Italia: «Ogni scena sembrava essere già stata vista in qualche sogno… In effetti avevo così spesso copiato tanti studi di quel grand’uomo che, senza accorgermene, mi ero imbevuto di paesaggi italiani e mi ero innamorato delle forme italiane».
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