Un’immagine in bianco e nero ritrae una giovanissima donna con lo sguardo basso, capelli corti e ordinati. Porta abiti severi e poggiata su un letto maneggia forse un biglietto mentre una smorfia sorridente le muove il volto. Lievemente. È il 1940 e la protagonista della foto, Annemarie Schwarzenbach, scrittrice svizzera, giornalista e viaggiatrice tra le più fertili che la cultura mitteleuropea abbia conosciuto, morirà un paio d’anni dopo, a soli 34 anni. Ancora una volta si mostra però all’occhio fotografico esperto di Marianne Breslauer che, come Ella Maillart, ci consegna di lei i momenti più intensi.
L’intermittenza del sorriso, con quella quiete apparente che nasconde il tormento di una vita straordinaria e avventurosa, è il sottofondo della sua scrittura e del suo impegno da fotoreporter e giornalista tra Oriente e Occidente per raccontare luci e ombre di chi e cosa incontra. Sono tuttavia per primi i suoi chiaroscuri personali a precipitare nel circostante, trafitti da una libertà bruciante e melanconica.
Nomadismo inquieto
Entrambi i libri si collocano alla vigilia di alcuni fatti importanti nella vita di Schwarzenbach, seminando già elementi delle sue scritture successive. Certo, non aveva ancora preso avvio quell’esistenza nomade che l’avrebbe portata da lì a poco in giro per il mondo come giornalista e fotoreporter, all’insegna della scrittura e di esperienze oblique alle quali farà sempre da sfondo la relazione complessa con una madre amata e imprendibile, tra fusionalità e respingimenti laceranti; non sapeva ancora dei distacchi dolorosi, dell’iniziazione alla droga negli anni berlinesi, delle depressioni e l’ipotesi di schizofrenia con alcuni ricoveri in manicomio, ma soprattutto non poteva immaginare che, per una banale caduta dalla bicicletta, avrebbe trascorso due mesi di angherie mediche, segnati da elettroshock, insulino-terapia e coma indotti, cessando di vivere il 15 novembre del 1942 in seguito al consenso familiare per l’eutanasia in una clinica svizzera – come risulta dalle ricostruzioni documentarie del pronipote Alexis e, qui in Italia, di Melania Mazzucco e pochi altri.
I due libri apparsi ora figurano invece il periodo della primissima giovinezza relativamente privo di sprofondo, colmo certo di tumulti e brevi cadute del vivere ma anche di una specie di fiducia verso un’esistenza ancora in divenire. In quel tratto indistinto in cui sembra che si possa divenire chiunque e qualunque cosa, come davanti a un obiettivo emergono figure minute che paiono quasi catturate nella lettura di La notte è infinitamente vuota.
La novella si sgrana nella descrizione puntuale di adolescenti che alla fine degli anni Venti a Parigi, tra università e attività culturali e politiche di vario tipo, cercano di trovare la misura delle relazioni tra se stessi e il mondo. In quel periodo, la stessa Schwarzenbach – già iscritta a Zurigo per studiare storia e letteratura – trascorre due semestri proprio alla Sorbona. Le ragazze e i ragazzi che popolano studentati, bar e circoli notturni rappresentano la stoffa degli incontri letterari e politici che la scrittrice farà.
Sensualità che esploderà in Eine Frau zu sehen (Ogni cosa è da lei illuminata, Il Saggiatore, 2012), scritto solo pochi mesi più tardi. Le mani femminili, che passano dai ricordi infantili delle amiche materne allo sconvolgimento per le fantasie provate, raccontano l’apprendistato all’erotismo e all’amore della giovane Schwarzenbach con lo smarrimento che arriverà a una piena forma desiderante solo nell’incontro decisivo con Erika Mann, la prima grande passione della sua vita. Le mani «molli e indifese» di Joan e quelle «piccole, forti e piene di delicatezza» di Jacqueline, rappresentano però anche il contrappunto tra l’antica e supplichevole richiesta di cura e la ricerca della libertà anzitutto sessuale; tutto ciò nell’inquietudine che la storia stava riservando a quante e quanti si opponevano all’oppressione del nazismo.
L’attenzione verso i primi segnali relazionali così come gli eccessi ai quali si abituò molto in fretta, non le impedirono infatti di interrogarsi sulle trasformazioni geopolitiche a lei coeve; non solo quelle europee ma, infine, del mondo. Dall’Asia agli Stati Uniti fino all’Africa e oltre, i numerosi viaggi intrapresi tra il 1933 e il 1942 con reportages in forma diaristica, fotografici e di articoli che poi inviava alle testate con cui collaborava, raccontano di Persia, Turchia, Afghanistan, ma anche del Congo e di New York, con una lingua che coniuga meticolosità descrittiva e grazia poetica.
Fra libertà e rivoluzione
Le vicende di questo gruppo di ragazze e ragazzi danno conto di una sincera disposizione alla felicità secondo cui il senso di appartenenza e la comprensione del mondo agiscono come spinta alla liberazione. È l’idea in fondo di una vulnerabilità interrogante che non ammette mediazioni e che, pur tuttavia, si scontra con quel che rimane di un mondo già mutato che da lì a pochi anni franerà di nuovo.
Sembra ancora una volta di sentire la giovane Annemarie che fa i conti con se stessa quando conclude uno degli scambi tra amici così: «Dovreste vivere soltanto di domande e di inquietudine; è la parte migliore di voi. Vorrei che rimaneste sempre così, pronti a sbocciare; non dovreste sottomettervi con tanta facilità a una legge, né adagiarvi su ciò che già esiste, non dovreste mai sentirvi del tutto soddisfatti!» «Ci sta insegnando la rivoluzione?» «Mi avete frainteso… Dovete proteggere la vostra libertà… Tutto il resto non ha importanza, la sola cosa che conta è abbandonarsi con fiducia al mondo». E a quel mondo si è abbandonata anche lei, senza alcuna protezione per se stessa ma costantemente in lotta per dire che sì, in fondo «la prudenza rende la vostra vita piatta. E rende piatti anche voi».