Cultura

Dialogando con «l’altra metà dell’avanguardia»

Dialogando con «l’altra metà dell’avanguardia»Lea Vergine tra le sale della mostra a Palazzo Reale, 1980 – Foto Gianni Viviani

Scaffale Angela Maderna, nel suo libro per Postmedia Books, interroga quarant'anni dopo la mostra di Lea Vergine che «dissotterrava le artiste», riconsegnando loro un posto nella storia

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 10 dicembre 2020

Da quando le mostre hanno iniziato a essere prese sul serio, a essere studiate e analizzate come forme d’arte, non più come semplici cornici, la loro storia ha iniziato a correre parallela a quella dell’arte.

NEGLI ULTIMI ANNI, l’incremento delle pubblicazioni sulla «biografia» dei musei, le esposizioni e le figure curatoriali ha evidenziato un interesse crescente per la messa in scena delle opere. Le mostre vengono lette non più come semplici allestimenti di opere ma come contributo alla scrittura della storia, alla sua sistematizzazione in idee e movimenti, come restituzione in immagini di progetti e desideri.
L’altra metà dell’avanguardia quarant’anni dopo (Postmedia books, pp. 120, euro 14) di Angela Maderna si può collocare in un ambito di ricerca che ha, tra i suoi scopi, quello di chiarire il rapporto ancora opaco e controverso tra storia dell’arte e storia delle mostre, rintracciandone le tappe, le evoluzioni nel metodo, soppesando il ruolo della curatela.
Il libro è una lettura a posteriori della collettiva L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche tenutasi a Palazzo Reale a Milano nel 1980, voluta e curata da Lea Vergine (da poco scomparsa). Maderna ricostruisce le intenzioni del progetto espositivo, i suoi interrogativi, il contesto nel quale si è sviluppato, le critiche che ha sollevato, e il segno che ha lasciato nella storia dell’arte.

LA MOSTRA RACCOGLIEVA le opere di 114 artiste delle avanguardie europee del ’900, artiste che la storiografia aveva per lo più ignorato o ridotto a figure legate ai leader nei ruoli di muse, assistenti, amanti o mogli. La volontà della curatrice è stata quella di strapparle all’oblio, sottrarle a ruoli marginali. Per far loro posto in una storia dell’arte intesa come disciplina rigorosa fatta di date, periodi, stili e movimenti.

IL LAVORO DI RICERCA e selezione delle artiste è stato tutto proiettato su una dimensione storico-scientifica, e si distaccava in maniera netta dalle istanze politiche e militanti, che ancora animavano lo scenario contemporaneo. Non c’è rivolta nel progetto di Lea Vergine, né si sputa su nessuno. Questo le varrà le critiche di Carla Lonzi e Giovanni Testori, così lontani e inconciliabili nei presupposti, così vicini negli esiti: un aspro rimprovero per la mancata messa in questione del concetto originario di avanguardia, accolto così come era stato consegnato dalla tradizione dominante, e maschile, avrebbe aggiunto Lonzi.
Il rifiuto di insistere sul contesto socio-culturale nel quale collocare il lavoro delle artiste, che le era stato rimproverato, torna nel catalogo della mostra, e nel metodo con cui vengono compilate le 114 schede, redatte a più mani, che ricostruiscono le carriere delle artiste a partire dal contesto familiare, la formazione, le esposizioni fatte, e compilano piccole bibliografie per ognuna di loro.
Questa scelta si allontana da tendenze al biografismo che passano le pratiche artistiche al setaccio degli eventi della vita privata, letture che la curatrice trovava romanzate e che, nel rendere conto delle difficoltà della condizione femminile, dichiarava finissero per «massacrare le artiste sull’altare della donnità». Interrate, sepolte, distrutte, cancellate, suicidate dalla storia, hanno il diritto di essere risarcite da vite segnate da oblatività e abnegazione.

LA GRAFICA DELLA COPERTINA del catalogo, curata da Grazia Varisco, può essere considerata il manifesto delle intenzioni della mostra. Il titolo, in Architype Albers, segue le linee di una carta millimetrata rossa che copre l’intera superficie. A circa metà, si sovrappone sbilenco un altro foglio millimetrato, che rompe l’asse cartesiano delle linee, rendendo la trama più fitta e il rosso più intenso. Il gioco è chiaro: gli spazi bianchi definiscono i vuoti della conoscenza ammessa dal discorso dominante che, a contatto con l’incursione di una nuova narrazione, per quanto sghemba e ancora parziale, devono arrendersi a un modo differente di presentare la storia.
Ma le mostre, come le storie d’amore, si lasciano comprendere solo in una visione retrospettiva che ne metta in parentesi il gioco di intenzioni e potenzialità iniziali. Non bisogna però commettere l’errore di chiedere al passato di legittimare il presente, né al contrario di appiattire il presente sul passato.
Nell’analisi della rassegna, il passato rivendica la sua grana discontinua che non smette mai di riconfigurarsi e acquisire significati. E se lo scavo di Lea Vergine ha sterrato artiste che non avrebbero altrimenti mai visto la luce, lo studio di Angela Maderna si rivela altrettanto indispensabile nel ricondurre gli oggetti trovati al loro terreno d’origine, orientando lo sguardo nella costruzione della memoria.

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