Stefano Di Stasio, “Fiorito”, 2022

Tra gli anni sessanta e settanta gli studi d’artista rischiarono di estinguersi. L’arte concettuale, l’arte smaterializzata, l’arte progettata sembravano aver conquistato una indiscussa egemonia, tanto da far parlare di post-studio art, riprendendo il nome di un corso ideato da John Baldessari alla CalArts appunto nei primi anni settanta. Se Robert Smithson si era proposto nel 1968 di liberarsi dai confini dello studio, Daniel Buren nel suo testo La Fonction de l’atelier, poco più di dieci anni dopo, dichiarava iniziare la sua ricerca proprio dall’estinzione dello studio come luogo di realizzazione di opere delle quali, tutt’al più, poteva essere in uno studio pensata solo un’idea embrionale da sviluppare poi fuori.
Uno studio, perciò, poteva essere anacronistico negli anni settanta, come lo era la pittura di figura, la bella pittura, lavorata con tempo e una pazienza quasi artigianale nota soltanto ai pittori antichi. Il primo dipinto figurativo di Stefano Di Stasio, un autoritratto così rivoluzionariamente ottocentesco realizzato nel 1977, cadde quindi come un sasso nello stagno della sperimentazione concettuale, del resto indagata in quel periodo dallo stesso Di Stasio nello spazio romano La Stanza, insieme a compagni di viaggio come Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella e Bruno Ceccobelli: quel dipinto fu voluto dall’artista come gesto di rottura, spiazzante, paradossalmente appartenente al regno della ribellione, pur sembrando reazionario, e, pur travestito da accademia, guastante quella reale accademia che era divenuta l’arte d’avanguardia. Non tanto nel dipinto di figura consisteva tale rivoluzionarietà dell’inattuale, quanto nel metodo, nella pratica integerrima di una cristallina tecnica pittorica, al modo, oltre che dei classici, del pictor optimus Giorgio De Chirico, che peraltro aveva incoraggiato un giovane Di Stasio vedendone il lavoro.
«Ma in questa dimensione di officina che ha questo postaccio, mi trovo bene» confida Di Stasio, dicendo del suo attuale studio. Si tratta di un atelier temporaneo, per cause di forza maggiore, un vecchio negozio di elettrodomestici, dismesso, che sorge lungo la strada principale che attraversa San Giovanni di Baiano, frazione di Spoleto. Entrando, l’idea che si ha è quasi di cripta, un ambiente centrale ritmato da due basse arcate, quasi una navata, ai lati del quale si aprono piccoli spazi, come cappelle o celle. È qui che sono appoggiate le tele, alcune di notevoli dimensioni, alle quali sta lavorando Di Stasio, in vista della prossima mostra, di maggio, alla Galleria Alessandro Bagnai di Foiano della Chiana. Noto l’assenza di finestre. Un artista che ha fatto del recupero delle tecniche pittoriche del passato il suo grimaldello appare strano che possa lavorare in uno studio senza finestre, alla luce di tubi al neon: «Sono neon speciali che usano i restauratori, simulano quasi al 100% la luce solare, i colori non si alterano», assicura.
Finestrato era invece lo studio precedente, sito nella casa in cui Di Stasio abita – nella campagna intorno a Spoleto –, circondata di alberi, e aveva la quotidianità del lavorare nella stessa dimora in cui si vive, a un tempo croce, per le distrazioni, e delizia, per la comodità. «Ho notato – è la prima volta che ho uno studio fuori casa – che lavoro più così che quando stavo dentro casa – ammette Di Stasio –, dove vado in cucina, prendo il caffè, la televisione, poi suono il pianoforte, internet, alla fine perdo tempo più in casa che a venire qui solo per lavorare, quindi ti dirò che mi piace questa dimensione proprio perché il lavoro sta fuori, non ho distrazioni, non c’è niente oltre l’artigianato mio». Il numero di tele realizzate in questo studio, circa venticinque, nonostante il poco tempo passatovi, meno di un anno, sta a dimostrare quanto la concentrazione giovi alla pittura lenta di Di Stasio, che celiando su un collega e amico ribatte: «Pizzi Cannella ci mette tre giorni a fare un quadro enorme, io ho bisogno di più tempo».
Ancora prima invece, nei primi anni Duemila, quando Di Stasio lavorò al grande ciclo delle storie di San Francesco e dei suoi discepoli commissionatogli per la chiesa di Santa Maria della Pace di Terni dallo stesso vescovo di Terni Don Vincenzo Paglia, il suo atelier era «una stanza piccola piccola per cui mettevo le tele attaccate al muro, e i telai li dovevo costruire fuori», ricavato da una casa in affitto sempre a Spoleto. «Fui assolutamente entusiasta di quel periodo perché era fuori completamente dal giro dell’arte, delle mostre, il mio rapporto era col Vescovo, le storie di San Francesco, come un pittore antico… ho cominciato a venire d’inverno, da solo, e ho vissuto mesi e mesi in questa solitudine quasi medioevale», ricorda Di Stasio, confermando la sua vocazione da pittore d’altri tempi seppur contemporaneo, ribadita dalla presenza di tutti i parafernalia del caso, dalla immancabile tavolozza ai colori, precisamente ordinati su uno scaffale, fino al grande tavolo quadrato, sommerso di vecchi e nuovi cataloghi, ove l’artista legge – spicca una bella edizione del Diario di Delacroix –, disegna, pianifica le opere.
E prima ancora? Era l’epoca dei suoi atelier romani, nelle abitazioni condivise da Di Stasio con la pittrice Paola Gandolfi, sua moglie, a Via Ostiense e Via di Parione, «però sempre case, sentivi lavare i piatti». Noto la presenza di alcuni supporti dei dipinti, simili a rastrelliere, fabbricati di listelli di legno. Mi rammentano qualcosa. Alzo lo sguardo verso i quadri da essi sorretti, Sincronie, Siste Viator, e capisco. Ecco, se una novità formale è apparsa nell’arte di Di Stasio degli ultimi anni, quella è la presenza di elementi formali astratti, dipinti come se fossero fatti di listelli colorati, e che hanno quasi la funzione di varchi o moltiplicatori dimensionali, facendo baluginare entro la narrazione pittorica visioni ora di mare, ora di palazzi di periferia, il Vesuvio, delle rose… Ne chiedo a Di Stasio: «Siccome io alle cose ci arrivo intuitivamente, non perché faccio un programma razionale, mi è venuta fuori questa cosa degli spazi, in qualche modo è un riferimento, credo, alle cantinelle teatrali, perché mio padre era cantante lirico, e io da bambino molte volte sono stato al teatro Eliseo a Roma, dove c’era una stagione lirica a settembre, dietro alle quinte, a vedere le scene mentre mio padre cantava». Mi spiega che creare interruzioni del racconto inserendo questi elementi astratti è un modo per «aggiungere visionarietà spezzando il naturalismo che c’è di base nelle mie opere, non voglio essere equivocato per un pittore realista».
Allo stesso tempo, inaspettatamente, proprio in questi ultimi sviluppi riaffiorano memorie ormai sepolte di quella giovane fase della ricerca, inedita, in cui Di Stasio, allievo di Scialoja, aveva sondato nei primi anni settanta il terreno dell’astrattismo, ma di quella particolare specie visionaria e favolistica scompaginata da Paul Klee. «A casa, in camera da letto, c’è un mio quadro astratto del 1970-’71, con un grande segno nero che attraversa lo spazio: guardandolo ogni sera, mi è rivenuta come una voglia di riattivare quella cosa che facevo», ed ecco spiegata l’origine di questi dispositivi astratti.
Nonostante la temporaneità di questo studio, si ha l’impressione che proprio qui l’artista stia trovando una sorta di pacificazione del suo percorso, e lo ribadisce confidando che «in questi ultimi anni, in questi ultimi lavori, io sono veramente me stesso, cioè questo è il funzionamento del mio cervello. Negli anni ottanta e novanta c’era una mascherata di antichità più magniloquente, adesso questo è quello che ho dentro, l’immaginazione interiore. C’è il mio vissuto, la casetta, i panni stesi quando stavamo a Monteverde, il teatro, mio padre, mia madre, Napoli, ogni tanto viene fuori il Vesuvio. Parlando di questo magari tocco l’emozione di chi guarda».
Il lavoro razionale, da officina, della pittura di Di Stasio, fatto di un lungo processo ponderato con cui la composizione del quadro è studiata nei minimi dettagli, e il colore steso attentamente strato su strato, non tragga tuttavia in inganno: «la prima idea è come un sogno, perché l’arte deve preservare lo spazio dell’intuizione».