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Di Maggio e Favelli, dialettiche filateliche

Di Maggio e Favelli, dialettiche filatelicheDalla mostra di Flavio Favelli "Serie Imperiale", a Bazzano, Bologna

A Venezia, Fondaco dei Tedeschi, Elisabetta Di Maggio con "Greetings from Venice". A Bazzano (Bologna), nella Casa del Popolo e nell'ex Minicoop, Flavio Favelli con "Serie Imperiale" Di Maggio realizza un mosaico multicolore che allude alla Basilica di San Marco; Favelli mette a muro due facce gigantesche di Vittorio Emanuele III: come far parlare la Storia con i francobolli

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018
Andrea CortellessaVENEZIA, BAZZANO (BO)

Rispetto ad altre forme di collezionismo iscritte nell’arte, la filatelia ha uno statuto ambivalente. Come ogni collezionista, quello di francobolli è un malinconico. Eppure permane sempre, in lui, un tratto espansivo che deriva dalla matrice infantile di ogni filatelia, «mossa insieme dalla passione per l’esotismo e da quella per la sistematicità della serie», scriveva il Calvino di Collezione di sabbia commentando l’opera di Donald Evans (artista americano morto trentenne nel ’77, e specializzatosi nella pittura di francobolli d’invenzione, di paesi e periodi storici altrettanto immaginari). La filatelia è il modo in cui ci si illude d’appropriarsi di uno scibile umano padroneggiabile, a partire dalle categorie fondanti della storia e della geografia.
Molti artisti hanno voluto esercitare questo controllo di un mondo miniaturizzato, in scala. Ad Alighiero Boetti, per esempio, colori e forme dei francobolli consentivano combinazioni matematiche, serie inesauribili, multiformi gradazioni di colore («sporcate» dall’irregolarità dei timbri postali). Ma la mail art – che ha conosciuto il suo periodo d’oro al displuvio del situazionismo – vive oggi una condizione paradossale. Nata come messa fra parentesi dell’autore, per sostanziarsi di circuiti relazionali e networks creativi, è oggi esautorata dal network globale che è la Rete. E sopravvive ormai, ricondotta alla sua matrice malinconicamente individualista, solo come ossessione privata, liturgia famigliare, memoria di repertori luttuosamente conclusi (l’ascetismo associato al nomadismo, celebrato già in Evans da Bruce Chatwin; ma lo stesso Boetti – ha testimoniato la figlia Agata – concepiva le sue lettere come modo introvertito e compensatorio, quasi à la Raymond Roussel, di «vedere» il mondo: «se la gente non viaggia, le lettere lo fanno al loro posto»).
È un caso eloquente che due artisti pressoché coetanei (nati nel ’64 e nel ’67) ma fra loro diversissimi, Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli, espongano in contemporanea, ora, lavori che proprio i francobolli impiegano come materiale. Di Di Maggio Greetings from Venice (a cura di Chiara Bertola, fino al 25 novembre) è un’installazione collocata al quarto piano (o Event Pavillion) del Fondaco dei Tedeschi, che a Venezia a lungo è stato sede delle Poste ma ha dovuto subire, qualche anno fa, la riconversione in centro commerciale di lusso; di Favelli Serie Imperiale (Italian Council 2017, a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi, fino al 3 giugno) si compone di due pitture murali di grande formato (due metri e mezzo circa d’altezza), collocate nella Casa del Popolo e nell’ex Minicoop (spazio commerciale assai più demotico, dismesso e prossimo all’abbattimento) di Bazzano, in provincia di Bologna (le due pitture verranno alla fine «strappate» e trasferite su tela, mentre i «buchi» resteranno «otturati» da due «anti-dipinti», come li chiama Favelli: stuccature e rattoppi su intonaco). Non si possono immaginare procedimenti più distanti. Di Maggio impiega una quantità esorbitante di francobolli di tutte le epoche e tutti i paesi (centomila sono quelli giustapposti sul pavimento del Fondaco, con la collaborazione degli studenti del Liceo Marco Polo), materialmente collocati su una superficie orizzontale. L’esito è un mosaico multicolore e festoso, che allude ovviamente a quelli della Basilica di San Marco (e il percorso che facciamo su di esso, infatti, conduce a un belvedere, sulla città-giocattolo, che fa mettere i turisti in coda a serpentone). Favelli riproduce l’immagine di due singoli francobolli, della stessa serie che dà il titolo del suo lavoro (uscita fra il 1929 e il ’42), e li colloca in verticale, a parete: due facce di Vittorio Emanuele III, il re formato-francobollo, qui ingrandite a dismisura, ci osservano intimidatorie; il suo volto è reso ancora più enigmatico, sin quasi all’irriconoscibilità, dalle sovra-scritte a pesanti caratteri neri, del territorio di Zara occupato dalla Wehrmacht, e rossi, della Repubblica Sociale Italiana. L’esito è severo, laconico, dalla cupezza quasi minacciosa.
Già le sedi dei rispettivi interventi la dicono lunga sulla distanza fra i due temperamenti, prima che fra le loro opere. Lo scenario di Bazzano, dimesso e ormai pressoché dismesso, allude a una storia opacizzata e «rientrata», sconfitta e denegata, che ci appare come un revênant persecutorio; il décor squillante di colori e prezzi del centro commerciale, che per raggiungere il lavoro di Venezia tocca attraversare, dice di un presente assoluto e ostentatamente spensierato. Il titolo di Favelli è tetramente suprematista, e rinvia a una storia tragica; quello di Di Maggio ironizza sull’exploitation a stereotipo turistico, di un territorio non meno carico di storia.
Ma il sorriso eginetico di Betta non è meno crudele del cipiglio corrucciato di Flavio. E, a un esame più attento, i loro lavori mostrano un elemento decisivo in comune. Entrambi ragionano sullo spessore del tempo mediante pratiche di sovrapposizione e palinsesto, immagini dialettiche. Le sovra-scritte sui francobolli, come ben sanno i filatelici, sono sigle provvisorie di passaggi storici repentini, brutali, quasi sempre tragici. Dicono di occupazioni, spodestamenti, sfollamenti. E i passaggi successivi del progetto di Favelli, lo strappo e l’otturazione, riproducono ex post e in scala, come in una macchina del tempo, la violenza di quella storia. Mentre il mosaico di Di Maggio, dalla minuziosità che come suo solito capovolge in ossessione sacrificale ogni sospetto di decorativismo, a sua volta «scava» la superficie del centro commerciale «creando un fittizio cantiere archeologico in cui si è scoperto un immaginario pavimento nato negli interstizi di quello spazio», come scrive Chiara Bertola: l’anima «postale», fatta di un lavoro materiale come il suo stratificatosi nei decenni, è un passato che anche in questo caso riemerge a contraggenio, diplopia e sovrimpressione di una storia preterita e rimossa. E costringe, chi voglia apprezzarne da vicino l’arazzo di tempi e luoghi che lo compone, a inchinarsi: a quella storia.

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