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D*Face, il segno irresistibile dell’«aPopcalisse»

D*Face, il segno irresistibile dell’«aPopcalisse»Un'opera di D*Face, "More Punk that You Punk"

Stili/È tra i più noti artisti multimediali britannici Un incontro nel suo studio londinese tra regine punk e supereroi sfigurati. Ripensando all’amico Banksy e in attesa della personale di Malaga

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Lo studio è a Shoreditch, cinque minuti a piedi dalla stazione di Liverpool Street. Sono le 10.30 e all’angolo con Commercial Street ci sono ragazzi che graffitano legalmente un muro di cinta. È a due passi da Plough Yard, il vicoletto con in fondo il Rebels Alliance, studio/base/rifugio di D*Face (vero nome Dean Stockton) che insieme a Banksy in Gran Bretagna e Shepard Fairey (quello del poster di Obama) negli Usa rappresenta la prima grossa ondata di cosiddetti urban/street artist finiti nelle gallerie.
D è un frullato di ironia, segni e rimandi, dal suo caratteristico cane-palla con orecchie volanti, lingua e dentoni all’infuori («nato scarabocchiando, un animale di fantasia») ai fumetti stile Lichtenstein che scarnifica e scheletrisce fino alla virulenza punk delle sue icone pop sfigurate (la regina Elisabetta, Cobain, Michael Jackson, Lennon, Saddam, Marilyn, Churchill, la statuetta degli oscar). Oggi al Rebels Alliance delle sue opere c’è poco. «Non tengo nulla qui – racconta -. Di ogni stampa conservo tre copie d’archivio nel caso saltasse fuori all’improvviso un evento importante. Un sacco di roba la trovi qui dietro alla galleria StolenSpace che gestisce mia moglie Eve, vende anche cose di altri artisti». Lo studio di Shoreditch non è grande, oltre a D, ci lavora anche Steven, il suo assistente. Appoggiati a tavoli e pareti, splendidi quadri serigrafici da trasformare in stampe di regine, la più nota caratteristica dell’artista multimediale inglese. Queste nuove, enormi Dog Save the Queen (Elisabetta con orecchie volanti e lingua penzoloni e nelle successive varianti a solo teschio), More Punk than You Punk (con piercing al naso, capello alla mohicana, orecchino con lametta) e Her Royal Hideousness (Sua Schifezza Reale, sia nella versione lenticolare 3D che in quella a stampa con volto sfigurato) finiranno esposte nella prossima personale di D in Spagna (al Cac, il Centro d’Arte Contemporanea di Malaga dal 26 giugno al 27 settembre 2015). Dietro ogni regina le ispirazioni sono tante: dagli scheletri della cultura skate alle provocazioni di Jamie Reid, il grafico dei Sex Pistols e della copertina del singolo God Save the Queen. In questo è vicino a colleghi come Paul Insect (la serie Dead Rebels con Sid, Jimi e Elvis) e a Dolk (l’opera Punk). Racconta: «Da ragazzino vivevo per lo skate e il tipo di grafica e adesivi che accompagnavano quella cultura e che avevo visto per la prima volta nella rivista Thrasher. Quella fu la prima illuminazione. Facendo skate andavo nei posti e in giro vedevo che sui muri c’erano graffiti e tags. Mia madre sapeva che mi piaceva disegnare e mi regalò Spraycan Art e Subway Art, i primi due libri sui graffiti Usa curati da Henry Chalfant. Quella fu la seconda illuminazione. A quel punto la scuola peggiorava, avevo anche fatto un corso di fotografia ma niente. I miei volevano che mi mettessi a lavorare, mio padre è stato fabbro e carrozziere, bravissimo con i lavori manuali e con le vernici. Mi mancava l’ultimo anno di superiori e la scuola non voleva riprendermi, all’ultimo secondo trovai un liceo artistico in cui potevo frequentare un corso di animazione e illustrazione. Quella fu la terza illuminazione. Da lì è cominciato un percorso grafico che un giorno mi ha fatto scoprire Andre the Giant Has a Posse, l’adesivo di Fairey dell’89. L’avevo visto in un numero di Thrasher; nella sua città, Providence, a Rhode Island, era sui muri, sugli skate, ovunque. In Inghilterra quelle cose non le faceva nessuno; scrissi a Shepard e gli chiesi di mandarmi alcuni adesivi, lo fece e quando venne a Londra per la sua prima mostra nel 1999 lo incontrai. Da allora siamo amici e ha anche scritto la prefazione al mio libro The Art of D*Face-One Man & His Dog». Il testo – un’autobiografia corposa stracolma di immagini e aneddoti – è uscito nel 2013; è una delle tante tappe nella storia artistica di D sfociata di recente in due enormi murales su commissione a Los Angeles e uno alle Hawaii. «Sono appena tornato – continua -. In genere sono festival a cui vengo invitato. Torno all’aria aperta. Vivo spesso questa tensione interiore, gallerie/strade. Io vengo dalla strada, sono come il mio cane simbolo che vola, non riconosco l’idea di autorità per questo non mi piace la regina e quello che rappresenta. Oggi faccio sempre meno cose in strada, almeno a Londra sono tutti street artist, termine che detesto, noi facevamo quelle cose e basta, poi hanno detto che eravamo street; è successo anche ai Sex Pistols e ai Clash che non hanno certo iniziato dicendo che facevano punk».
Questa è una giornata importante anche per D. Chi scrive ha organizzato un incontro nello studio dell’artista con Glen Matlock (bassista originario dei Sex Pistols) e Dean è eccitato. Per lui è una fonte di ispirazione e vuole conoscerlo. Parleranno a lungo, chissà. Dice: «Io sono cresciuto con i Pistols, i Clash, i Dead Kennedys. Poi sono passato al grunge. Mia sorella che ha 40 anni, tre anni più di me, mi ha fatto conoscere Meteors e Cramps. Le copertine di questi ultimi erano incredibili. Sentivo anche un po’ di hip hop, soprattutto Grandmaster Flash e Roxanne Shanté. In studio c’è sempre musica, accompagna e influenza il mio lavoro». Ti piace il tuo lavoro? «Direi di sì – prosegue – anche se guardo sempre avanti e i giudizi magari li rimando di mesi. Penso sempre all’evento successivo, a come organizzarlo. Con le mie opere sono molto meticoloso, maniacale, nevrotico, magari riuscissi ad essere più veloce ma non mi accontento mai».
D*Face lavora da sempre in mille direzioni: adesivi (folgorato da Fairey), tele, stampe, sculture, grafica, copertine (ad esempio per la casa editrice Penguin e per Bionic, l’album di Christina Aguilera); nel 2004 ha dato vita all’Outside Institute, la prima galleria europea di urban art alle cui esposizioni partecipa anche Banksy.
«Il fattore B, come lo chiamo io – dice -. Al tempo Banksy era uno dei tanti a cui piacevano gli stencil, la questione del suo anonimato non era così pressante, piuttosto riguardava altri graffitisti che causavano seri danni ed erano a rischio arresto. Noi ci vedevamo regolarmente al Dragon Bar che al tempo era a Old Street, ci ubriacavamo e bombardavamo di scritte i bagni del posto e le strade intorno. Mi piaceva quello che faceva, era diverso dagli altri e molto accurato. In quel periodo, nel 2004, avevo scoperto come stampare sulle banconote da 10 pounds e dunque, diciamo, come interagire con la faccia di Elisabetta, salvo poi scoprire che in Gran Bretagna sfigurare la regina è un ancora uno di quei crimini che può portare all’ergastolo. Cominciai a rielaborare un bel po’ di banconote e le chiamai Face Value; in molti mostrarono grande interesse, incluso Banksy che mi scrisse un’email. Gli era piaciuta l’idea e decidemmo di collaborare su una stessa banconota da 10 ma con Diana al posto della regina. La chiamammo DiFace. Stavolta le stampammo, finché un avvocato gli disse che potevamo rischiare molto, eravamo dei falsari. Il gioco non valeva la candela e ci siamo bloccati. Ci siamo frequentati assiduamente fino al 2006, mi ha fatto partecipare alle iniziative di Pow (Pictures on Walls, stampatore e venditore on-line di serigrafie) e agli eventi prenatalizi Santa’s Ghetto che organizzava vendendo le sue cose e quelle di altri. Io contraccambiavo includendo i suoi lavori nelle mostre dell’Outside Institute. Ma la pressione intorno a lui cresceva in maniera sconvolgente e presto ha cominciato a scivolare nell’ombra. L’ho rivisto una sera del 2007 mentre ero in giro a bombardare i muri di scritte con Shepard. Mi ha chiamato e ci siamo bevuti una birra al solito Dragon, gli ho chiesto se voleva venire con noi ma ha declinato l’invito ed è di nuovo sparito. A un certo punto hanno detto che ero io il nuovo Banksy, ma sono già così occupato a essere D*Face. Oggi si dice spesso ‘ecco il nuovo Banksy’, ma c’è lui e basta, è iperattivo, presente e opera in mille modi. Non puoi sostituirlo. Il prossimo Banksy verrà sicuramente da un altro ambito non certo artistico». Da dove arriva tutta questa attenzione per la pop art?
«Sempre da mia madre – riparte -. Mi portò a una mostra e anche quella mi ha influenzato molto. Mi piace l’idea di sfigurare icone di Warhol come Marilyn, sotto la fama c’è la morte, l’anti-sogno, il decadimento, lo scheletro: alla fine sono solo umani. Mi va di far riflettere su questa costante ossessione e questo fascino per l’idea di notorietà. Ho esplorato questi concetti nella mostra EyeCons del 2007 a Brighton e ci sono tornato sopra nella successiva aPopcalypse Now dedicata a supereroi come l’Uomo Ragno e soprattutto Superman nati per salvare gli Usa e l’umanità. Sono personaggi ormai defunti, travolti dal caos internazionale, buoni e infidi allo stesso tempo, facce e scheletri, così come le democrazie esportate con la forza che hanno evidenziato il loro lato più oscuro. Metaforicamente va tutto di pari passo con il mio nome d’arte ‘deface’, sfigurare, andare dietro la superficie, non fermarsi al primo livello. Ad esempio nell’opera CliChé, sfiguro Che Guevara che indossandolo su una t-shirt persi di essere un rivoluzionario e invece stai solo portando una maglietta ed è tutto così lontano dal pensiero del Che». D*Face è instancabile, un vortice di idee che gli brillano negli occhi. Nello studio ci sono moto – altro mondo che lo affascina – che si diverte a personalizzare con i suoi disegni («non sono i vendita, ma cominciano a chiedermele»), all’ingresso è esposta anche una fila di magliette con sopra il cane e dintorni. Questa chiacchierata è solo una breve pausa prima di ricominciare a elaborare immagini e disegni. Dice: «Ho due bimbe di 5 e 8 anni; la mattina faccio colazione e le porto a scuola, arrivo in studio alle 10 e ci resto fino alle 22». Chiedo: hai pensato a come farai a spiegargli il concetto di legale e illegale? «Lo farà la madre – scoppia a ridere – io non ci riesco. No scherzo, l’importante è discutere, sono uno a cui piace forzare i limiti e non riguarda solo il mio mestiere. Penso che parlare sia la cosa più importante, ignorare le questioni non paga; se vuoi fare qualcosa di illegale cercherò di indicarti il modo migliore per farlo». Con i figli raramente va così. Nel frattempo è arrivato Glen.

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