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Desmond Morris, ridda vorticosa di gesti, con agudeza

Desmond Morris, ridda vorticosa di gesti, con agudezaJoseph Ducreux, "Autoritratto con sbadiglio", 1783, Los Angeles, J. Paul Getty Mueum

Desmond Morris, "In posa. L’arte e il linguaggio del corpo", Johan & Levi Smorfie, sbadigli, cachinni, riverenze... in un atlante figurativo commentato. Con la solita nonchalance, il saggista inglese novantaduenne pesca nelle più varie tradizioni, tanto etniche che cólte: il saluto romano in David e Gérôme, le corna in un mosaico ravennate...

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 18 ottobre 2020

Naked apes è un titolo che ha qualcosa di sfrontato. Doveva certo esserci una certa improntitudine (ancor più cinquant’anni fa, quando il libro uscì) nel definire la specie umana sul parametro di una scimmia. E sebbene Platone ci avesse raccontato di come l’astuzia di Prometeo fosse stata volta proprio a compensare gli uomini della loro nudità a cospetto degli altri animali, noi non amiamo essere indicati quali quadrumani manchevoli. Preferiamo piuttosto ridere del contrario, come nei quadri di Chardin.
Oggi Desmond Morris ha novantadue anni e più di sessanta libri alle spalle, egualmente divisi fra i suoi due maggiori interessi, l’arte e l’etologia. Nell’ultimo In posa L’arte e il linguaggio del corpo (Johan & Levi, pp. 320, euro 32,00) confluiscono entrambi, giacché si tratta di un saggio sul significato dei gesti umani attraverso le testimonianze fornite dalla storia dell’arte d’ogni tempo e contrada. È egli stesso ad ammettere, d’altra parte, nell’introduzione al testo, che in queste pagine si danno il braccio due rami della sua indagine, l’uno culminato ne L’uomo e i sui gesti. La comunicazione non verbale della specie umana (1977), l’altro ne La scimmia artistica. L’evoluzione dell’arte nella storia dell’uomo (2013).
Il mutare dei codici culturali
Il linguaggio va, naturalmente, mutando col mutare dei codici culturali; e ciò sebbene una posa come quella delle mani sui fianchi e i gomiti all’infuori implichi un desiderio di distanza, vuoi altezzoso vuoi protettivo, che non dipende né dal clima né dalla latitudine. Alcuni segni hanno, invece, per Morris un carattere meno universale. La pratica del saluto romano, per esempio, che ebbe tristi reviviscenze in tempi a noi non troppo lontani, fu limitata al desiderio nostalgico di restaurare il passato, sebbene l’antichità alla quale pretendeva rifarsi fosse un’antichità di princisbecco: fu, infatti, Jacques-Louis David a far giurare i suoi Orazi col braccio levato e il palmo rivolto verso l’esterno in una maniera che non è attestata, con tanta precisione, da alcuna fonte classica. Il gesto venne poi ripetuto dai gladiatori di Jean-Léon Gérôme nel famoso dipinto Ave Caesar! Morituri te salutant (1859), e finì coll’esser creduto autentico benché contenesse poca più verità storica dei Canti di Ossian o delle liriche medievaleggianti di Thomas Rowley.
Anche la mano celata nel panciotto, che si vede nel ritratto di Napoleone (1812) di Lefèvre o in quello di Stephen Poyntz di Midgham, Berkshire (1740) di Van Loo, nasceva dal desiderio di imitare le posture degli antichi: un’identica posizione ha la mano della musa Polimnia (1789) nella copia eseguita, a poca distanza dal suo ritrovamento, da Johann Heinrich von Dannecker. Nascosta nella tunica essa rivelava quella disinvolta padronanza di sé ch’era segno distintivo delle classi elevate e che Cicerone raccomandava a ogni buon oratore nell’ideale della negligentia diligens.
Altri gesti, tuttavia, non discendono da una tradizione colta ma da ancestrali riti apotropaici, come il fare le corna che trae origine da un remoto culto del toro e che «può vedersi raffigurato già in alcuni dipinti murali di antiche tombe etrusche, e in certe ceramiche della cultura della Daunia fiorita in Italia intorno al 500 a. C.». Morris ne mostra due varianti, una scaramantica (Il malocchio, 1859, di John Phillip e un mosaico del VI secolo d. C. raffigurante il Sacrificio di Abele e Melchisedec nella Basilica di San Vitale a Ravenna) e una oltraggiosa (una miniatura tratta dal Libro de los juegos, 1283) Più universale fra tutti, l’atto di cullarsi richiamerebbe, invece, lo stato prenatale, malgrado le sedie a dondolo, che rendono possibile questo movimento anche in età vetusta, non siano apparse prima del XVIII secolo.
Anche il bondage, per il quale Morris richiama il celebre Perseo e Andromeda (1592) del Cavalier d’Arpino e l’altrettanto famoso Martirio di San Sebastiano (1495) di Perugino, pur non essendo una fantasia sessuale riferibile più a questa che a quell’altra epoca, trovò soltanto a partire dal Cinquecento nelle storie dei martiri cristiani e degli eroi gentili un salvacondotto utile per entrare negli appartamenti signorili dove questo genere di rappresentazioni costituì un eccellente stimolo per le dilectationes morosae di principi e granduchi.
Morris raccoglie immagini d’ogni epoca che si susseguono in una ridda vorticosa di smorfie, sbadigli, cachinni, riverenze, inchini capaci di costituire per se stesse un piccolo atlante dove ogni gerarchia artistica è sospesa. L’autore s’astiene, d’altra parte, dal proferire dei giudizi formali, preferendo, all’acribia del critico, la disinvolta grazia d’espositore colto. Si veda, ad esempio, come tratta il capitoletto dedicato al pugno teso dove la stravagante varietà degli accostamenti, che partendo da Rembrandt finisce al Manifesto di propaganda sovietica, produce quel tipico sgrigiolio dell’intelligenza che Gracián attribuiva all’agudeza.
In posa è certamente un ottimo libro, ma non è la migliore fra le opere di Morris. Senza aver nulla di raccogliticcio, aggiunge poco alla sua opera, e il divertimento maggiore, come s’è detto, è costituito dalle associazione di statue, manifesti, murales, fotografie e dipinti, nelle quali oltre all’arguzia dell’autore è possibile apprezzare l’eccellente lavoro grafico della Johan & Levi, che è oggi una delle più interessanti fra le case editrici che si occupano di critica d’arte. La pubblicazione di tutte le ultime opere di Desmond Morris (Le vite dei surrealisti, 2018; I gatti nell’arte, 2018) rivela inoltre la determinatezza d’una scelta, che sempre più inclina alla saggistica rapida e puntuta, meno familiare oggi di ieri, quando gli ambienti letterari erano più vivaci e la grazia della conversazione non ancora del tutto svanita.
Mi è capitato di notare, scrivendo d’altri titoli della casa editrice, come questo genere di libri non riesca sempre altrettanto bene come a uno scrittore della levatura di Desmond Morris. Come stupirsene? Non v’è nulla di meno facile a simularsi della disinvoltura, giacché, parlando appunto di pose, la naturalezza è di tutte la più difficile. Qualche volta si trovano articoli accademici che vogliono assumerla con titoli che hanno l’astruseria di un secentismo, e sottotitoli limpidi e piani che sembrano voler fare ammenda dell’impertinenza appena commessa. Morris è un divulgatore arguto e naturalmente brillante. Auguriamogli ancora cent’anni!

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