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Desmond Morris, i surrealisti nell’aneddoto

Desmond Morris, i surrealisti nell’aneddotoDesmond Morris, "Blind watchmaker", 1986, collezione privata

Desmond Morris, "Le vite dei surrealisti", Johan & Levi Per l’etologo-pittore la via biografica è la più utile chiave di accesso. Fra Svetonio e Schwob, rifiuta le spiegazioni generali e non vede all’origine delle fissazioni artistiche che fortuite circostanze: un approccio, in fondo, ben in linea con il surrealismo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018

Desmond Morris è l’autore del noto saggio La scimmia nuda. L’animale del titolo è l’uomo, primate senza pelliccia. Alle scimmie nude piacque molto vedersi dipinte come naked apes e corsero a comperare il libro. Vi furono altre scimmie, con una toga accademica a compensare la mancanza di vello, alle quali le affermazioni sostenute da Morris piacquero meno, ciò, tuttavia, non tarpò le ali al saggio che raggiunse presto oltre le dieci milioni di copie vendute.
È probabile che, in quegli anni, Morris fosse particolarmente attratto dai primati: un giorno, infatti, preso un robusto scimmiotto e datogli tela e pennello, lo spinse a dipingervi sopra. Si realizzava così quel che il pittore francese Chardin nel XVIII secolo aveva, solo per celia, immaginato. Il quadrumane dovette disimpegnarsi piuttosto bene perché uno dei suoi quadri venne prontamente acquistato da Mirò. Non fu tutto: Roland Penrose, infatti, visti gli esiti dell’esperimento, decise di esporre le tele all’Institute of Contemporary Arts di Londra. Non è difficile credere, d’altra parte, che a Congo, questo era il nome dello scimpanzé, certo oblio delle convenzioni pittoriche, proclamato a chiara voce dai Surrealisti, dovesse riuscire particolarmente lieve.
In questi test l’esperienza surrealista di Morris e i suoi interessi di etologo s’intrecciano. Da giovane Morris aveva fatto parte del movimento, partecipando, su invito di E.L.T. Menses, alle esposizioni della London Gallery di Penrose. Siccome Menses nei riguardi delle regole di Breton nutriva l’atteggiamento di chi si dedica per vocazione all’apostolato, l’esposizione delle opere di Morris nella sua galleria equivaleva a un certificato d’appartenenza conclamata al Surrealismo. È dunque con un materiale più vivo di quello che generalmente tocca in sorte a uno studioso che l’etologo britannico ha composto, per l’inglese Thames & Hudson, queste trentadue succinte biografie, The lives of the Surrealists, tradotte in italiano da I. Inserra e M. Mancini per Johan & Levi: Le vite dei surrealisti (pp. 273, euro 30,00, 70 illustrazioni b/n e colore, cartonato).
Materiale vivo al pari della prosa che molto ha di quelle frasi ironiche e asciutte tipiche della buona conversazione anglosassone. E, certo, c’è nella scelta di fare della biografia di ciascun artista un’elegante esposizione di episodi curiosi un po’ di quella signorile antipatia per le troppo sottili astrazioni che distingue il conversatore aggraziato. Negli stessi risvolti di copertina si promettono «trentadue storie eccentriche che si snodano fra i bistrot della ville lumière e i posti più incongrui» e, in effetti, chi fosse in busca di stramberie ne troverebbe nel libro da colmarne i forzieri di re Salomone; più della metà delle quali le fornisce Dalì, ça va sans dire. In Morris, cionondimeno, la narrazione aneddotica ha tutto il carattere di una posizione estetica.
Bacon, le scatole e il bondage
«In che modo – egli si domanda a un certo punto – questa conoscenza della vita privata di Bacon ci aiuta a comprendere la sua pittura?», e allora legge, tra i giudizi critici formulati negli anni, che le scatole nelle quali il pittore ritraeva molte delle sue figure umane erano «simboli di isolamento spirituale o di traumi culturali» e subito contesta che esse non erano altro, invece, che «le gabbie del bondage e della sottomissione sessuale». È poi la volta di Henry Moore: si tratta di uno scultore, non più di un pittore, ma la melodia non muta: «un critico d’arte – scrive Morris – ha parlato della visione epica, catastrofica e utopistica di Moore e della natura universale, sociale e pubblica delle sue opere. Queste frasi non contribuiscono granché a mettere in luce il reale valore della sua produzione. La verità è che egli ha creato per noi un affascinante mondo personale che richiama misteriosamente il nostro».
Ciò che potrebbe essere espressione dell’Uomo non è, per Morris, che indizio dell’uomo. C’è in questa posizione un’eco, seppur lontanissima, di Schwob, l’autore intensamente amato da Breton, che aveva ritenuto artistici soltanto i tratti singolari e idiosincratici delle personalità insigni e non gli universali, interesse di storici tediosi e di moralisti. E le lives of the Surrealists non sono, infatti, vite alla maniera di un Plutarco e nemmeno di un Vasari ma a quella, minuta e indiscreta, di uno Svetonio, lo scrittore che faceva parlare la Storia per aneddoti. Questo assunto fa di Morris come uno speleologo o, con immagine più familiare ai surrealisti, un palombaro che riporta alla luce, attraverso queste pagine, immagini antiche sedimentatesi nella fantasia, prima ancora che nell’opera, degli artisti. Si hanno così per Leonora Carrington «le strane leggende che le raccontava la tata irlandese», poi Tanguy «che da piccolo, trascorrendo le vacanze con la famiglia sulla costa bretone, fu molto colpito dalle spettacolari formazioni rocciose della regione» e ancora Moore che un giorno «aprì svogliatamente dei vecchi cassetti in un angolo di una delle aule d’arte: al loro interno trovò alcune polverose ossa di animali, rimase affascinato dalle forme e cominciò a ritrarle».
Molte fissazioni pittoriche non nascono che da fortuite circostanze, come se il destino si fosse messo a giocare anch’esso al cadavre exquis. Moore, s’è detto, aveva trovato i primi modelli delle sue sculture sbirciando tra i cassetti, Man Ray non gli fu da meno, se, come racconta Morris, fu debitore per i suoi suggestivi effetti fotografici a un topolino entrato accidentalmente nella camera oscura. Il libro è tutto un repertorio di codeste mele newtoniane che, una volta cadute nell’immaginario degli artisti, danno tanti e diversi alberi surrealisti.
Breton, «somaro pretenzioso»
Non sfugge a Morris il paradosso per il quale un perfetto surrealista non sarebbe dovuto essere surrealista. Come può, infatti, un movimento che proclama l’assenza di norme e l’assoluta predominanza dell’individualità eccentrica quali suoi fondamenti, articolarsi in regole, veti e proclami comuni? Il problema non è nuovo: già nei Simbolisti era emersa questa contraddizione ma Delville, Toorop, Khnopff e Hodler, almeno, non facevano conclave; Breton, invece, mostrava un tale autoritarismo da richiamare molti odi e un numero incommensurabile di nomignoli irriverenti, come quello di «somaro pretenzioso» che gli dette de Chirico.
Di lui Morris scrive: «Uno dei problemi che dovette affrontare Breton quando cercò di organizzare la sua piccola banda di ribelli, fu che molto spesso questi si opponevano alla sua richiesta di azione collettiva. I ribelli sono eccentrici e individualisti per natura: non vogliono che i loro dipinti somiglino a quelli di altri membri del gruppo per timore di non essere considerati originali». Questi e altri aspetti fanno della biografia di Breton una fra le più ricche e chiaroscurali del libro e, forse, delle più significative per comprenderne la natura. Giacché qualcosa dello sforzo bretoniano per garantire un’unità a questa brigata di spiriti indisciplinati è anche in queste Vite dei Surrealisti.
Le opere surrealiste, afferma Morris, non possono che leggersi in rapporto alla storia individuale, le fantasie pittoriche che si vedono rappresentate sono, innanzitutto, ossessioni private, eppure egli non nega in questi artisti i propositi comuni, le comuni esperienze e la frequente assonanza di tecniche e, a volte, di destino. È un equilibrio difficile che richiama ancora una volta il passato, non Schwob stavolta ma Remy de Gourmont e il suo Livre des masques, e che può far comprendere cosa stia dietro l’impeccabile leggerezza di narratore sapido di Desmond Morris.

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