Derrida, l’altro da noi fra reciprocità elettive e virtuose asimmetrie
Tradizione del '900 Meglio di altri saggi, «Politiche dell’amicizia» rivela come la decostruzione non sia stata una versione estenuata o nichilista del progetto ermeneutico, bensì un lavoro mirato alla individuazione di un orizzonte pratico-morale all’altezza dell’enigmaticità del presente: riproposto da Cortina
Tradizione del '900 Meglio di altri saggi, «Politiche dell’amicizia» rivela come la decostruzione non sia stata una versione estenuata o nichilista del progetto ermeneutico, bensì un lavoro mirato alla individuazione di un orizzonte pratico-morale all’altezza dell’enigmaticità del presente: riproposto da Cortina
Nel pensiero classico antico, da Platone a Aristotele, da Epicuro a Cicerone, l’amicizia è considerata il modello dell’eccellenza nei rapporti umani. E, ancora, da Montaigne a Kant e oltre, si è continuato a percepire nell’amicizia una delle esperienze più significative dell’esistenza. La filosofia ha regolarmente legato se stessa e le proprie proposte a una costante, multiforme discussione dell’amicizia, sia in quanto campo di manifestazione di una reciprocità pura – di un giusto vincolo di scambio, equilibrato e «virtuoso» – sia come luogo di apparizione di una generosità assoluta, senza misura, e di un rispetto incondizionato dell’alterità dell’altro.
Alla definizione dell’amicizia – e di cosa siano, o meglio, di chi siano un amico e un nemico – Jacques Derrida dedicò alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso un seminario, che presentò poi rielaborato e arricchito, in uno studio storico-teorico edito nel 1994, divenuto rapidamente un riferimento obbligato: ora, a distanza di venticinque anni dalla prima edizione italiana, Politiche dell’amicizia (traduzione di Gaetano Chiurazzi, Raffaello Cortina, pp. 398, € 29,00) torna a rendere disponibile questa interrogazione critica, serrata e polivalente, della questione dell’amicizia, della sua intrinseca politicità, del suo possibile senso per l’elaborazione di un’idea e di una pratica della democrazia, capace di apertura a un vero futuro.
In uno spazio instabile
A rileggere l’analisi della torsione cui si è trovata sottoposta la tradizione filosofica relativa alla amicizia – da Nietzsche, a Schmitt a Blanchot – si conferma la vocazione etico-politica che innerva il paradigma decostruzionista articolato da Derrida soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta. Politiche dell’amicizia è stato, in effetti, tra i lavori che più chiaramente contribuirono a rivelare come la decostruzione non rappresentasse affatto una versione estenuata o nichilista del progetto ermeneutico, bensì un nuovo tipo di lavoro critico e filologico, al servizio dell’individuazione di un orizzonte pratico-morale all’altezza dell’enigmaticità del presente. La prassi decostruzionista si mostrava come una sorta di creazione distruttiva, una eterodossa attività di disassemblaggio dei materiali tramandati dalla cultura, per renderli disponibili a nuove configurazioni, necessarie per rispondere alle sfide inedite del mondo contemporaneo.
Scavando nei testi della tradizione e cercandovi effetti di continuità o di distanza, polisemie, polivalenze, eco deformanti, Derrida tende a liberare uno spazio teorico in cui la concreta esperienza dell’amicizia divenga attestabile al di fuori di ogni equiparazione tra comunità, fraternità, democrazia, e al di là di ogni valorizzazione che, in modo manifesto o latente, appiattisca il legame amicale sulla assimilazione emotiva, adottando paradigmi pseudonaturalistici o vincoli in modo o nell’altro normativi.
Una «politica dell’amicizia», suggerisce Derrida tra le pieghe della sua audace disamina, che dedica pagine importanti a Kant e alla figura concettuale dell’«amico degli uomini», deve essere pronta a inventare l’«essere-insieme» e i modi di allargare ad altri l’amicizia, perché l’amico non è qualcuno che già c’è e si tratterebbe semplicemente di raggiungere, bensì qualcuno che non c’è ancora, e verrà se sarà raggiunto dal richiamo dell’altro e se sarà capace di rispondervi lasciando emergere dentro di sé la propria alterità a se stesso, presupposto essenziale di ogni vero incontro. L’amicizia, in questo senso, è ciò che proietta le soggettività in un spazio condiviso profondamente dinamico e strutturalmente instabile, la cui insorgenza dipende dalla sospensione dei riflessi condizionati identitari.
Più reali e produttive sono le amicizie, più si fanno abitare dalla dismisura e evitano di esimersi da quanto può sia interromperle che rilanciarle, con la consapevolezza che nell’amico non si incontra affatto il proprio alter ego, si incontra piuttosto l’inappropriabile. Nella prospettiva teorica di Derrida, l’amicizia è insieme e indecidibilmente reciprocità e asimmetria; richiede di trattare l’altro simile come fosse uno sconosciuto, e allo stesso tempo di riconoscervi, insieme alla sua alterità, anche il profilo del prossimo e del vicino. «Non c’è democrazia senza rispetto dell’alterità e della singolarità irriducibili, ma non c’è neanche democrazia senza calcolo della maggioranza, senza soggetti identificabili, rappresentabili e uguali tra loro».
Quel sé irraggiungibile
Mentre si deve evitare di ridurre la differenza dell’amico, pena la sua scomparsa, bisogna ampliare il numero degli amici, limitando l’estraneità e componendo le differenze, tentando di rappresentarle e perseguendo forme rinnovate di unità. I nostri pensieri e le nostre prassi amicali (a qualsiasi medium ricorrano) possono continuare ad arricchire la tradizione dalla quale discendono, se divengono relazioni che, al di là di derive immaginarie e fusioni comunitarie, articolano di volta in volta l’inventività necessaria, e sanno farsi progettualità condivisa, incontro tra esistenze in grado di inaugurare, come ha scritto Michel Foucault, «un lavoro di sé su sé per trasformarsi e far apparire quel sé che per fortuna non si raggiunge mai».
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