Il filosofo Jacques Derrida, in un testo del 1994 intitolato Politiche dell’amicizia (Cortina, 2020), rivelava come la decostruzione, al di là dell’ermeneutica nichilista, fosse strettamente legata alla democrazia in quanto «democrazia-a-venire». È proprio secondo questo sodalizio che si è svolto a Parigi il convegno internazionale Qui a peur de la déconstrution? (Chi ha paura della decostruzione?), consacrato al pensiero dell’intellettuale francese: studiose, studiosi e un nutrito pubblico sono stati accolti nelle sale dell’Ecole Normale Supérieure e dell’Université Panthéon da Anne-Emmanuelle Berger, Isabelle Alfandary e Jacob Rogozinski. Fra gli intenti, anche quello di rispondere alle istanze che un anno fa, alla Sorbona, avevano animato un simposio: si partiva dall’idea di «ricostruire le scienze e la cultura dopo la decostruzione» e si attaccavano gli studi di genere, il pensiero decoloniale e tutte quelle pratiche intellettuali che agiscono la decostruzione per la sua postura filosofica antimetodologica e come strategia di lettura dei testi e del mondo.
«Abbiamo voluto evitare un semplice discorso oppositivo e riduttivo, e ragionare insieme partendo dalle opere di Derrida e da quella riflessione filosofica che ha irrigato il pensiero contemporaneo – ha spiegato Anne-Emmanuelle Berger, professoressa emerita di Letteratura francese e Studi di genere –. L’idea era quella di evitare miscugli grossolani, ribadendo come la decostruzione sia innanzitutto un gesto affermativo e non distruttivo». «Non era, infatti, nostro desiderio difendere la decostruzione a tutti costi ma avevamo la convinzione che potesse esistere un’eredità di filiazione intellettuale complessa: molteplice, feconda e anche contradditoria – ha continuato Isabelle Alfandary, docente di Letteratura americana, psicoanalista ed ex presidentessa al Collège international de philosophie –. Non una tribuna a difesa di Derrida, dunque, ma l’esposizione del modus operandi di filosofi, psicoanalisti e pensatori che hanno lavorato e lavorano su e con i suoi testi. Volevamo mostrare come l’eredità della decostruzione (che poi è un ossimoro) abbia fecondato campi di ricerca multipli, fino ad oggi.

Nel 2001 Jacques Derrida ricevette la cittadinanza onoraria di Siracusa e, contestualmente, pronunciò un discorso sul tema delle nuove cittadinanze ospitali. Se è possibile identificare la decostruzione derridiana con la promessa di una «democrazia a venire», in che modo quella di una democrazia fondata sull’accoglienza si può relazionare con il concetto di ospitalità intesa come geografia delle prossimità?
BERGER: Perché è così fondamentale la questione dell’ospitalità in Derrida? Pensiamo alla sua nozione di appartenenza senza appartenenza al giudaismo, secondo quella vigilanza inquieta «d’étranger de l’intérieur». In quanto filosofo, è considerato da un certo establishment culturale francese come uno «straniero dall’interno», in ordine alle sue origini giudaico-maghrebine e alla sua ricezione negli Usa. La sua opera mette instancabilmente in discussione l’opposizione tra l’alterità e il sé ed è attraversata dall’interrogazione sul «proprio» e «l’estraneo», «lo straniero». L’ospitalità è la figura dell’accoglienza di questo altro. Esiste un rapporto allo stesso tempo incommensurabile e necessario tra l’idea di accoglienza senza condizioni e quella di una sua attuazione concreta e circostanziale, limitata dalla politica della cosa. Ciò che Derrida ci invita a pensare risponde alla medesima logica di quello che egli stesso diceva a proposito del diritto e della giustizia: bisogna rapportare le pratiche agli ideali. Nei fatti, l’ospitalità senza condizioni può difficilmente tradursi come tale, ma è necessario mantenere questa nozione come orizzonte inderogabile, per non limitare in anticipo le sue possibili applicazioni. Non possiamo lasciare alle porte la gente che muore: anche se empiricamente è difficilmente realizzabile non possiamo sbarazzarci della tensione e dell’esigenza morale che rappresenta l’ospitalità senza condizioni.
ALFANDARY: Potremmo dire, alla maniera kantiana, che l’ospitalità senza condizioni è un’idea regolatrice. Lo stesso vale per l’idea derridiana di democrazia a venire, che non è realizzata ma a cui si deve tendere. Il lavoro della decostruzione significa questa tensione, la stessa che regola la nozione d’ospitalità senza condizioni – che ritroviamo nel volume Hospitalité (Seuil, 2021), testo che raggruppa i seminari che Jacques Derrida tenne all’Ehess tra il 1995 e 1996. La tensione non si deve spegnere. Secondo lo stesso principio abramitico della tenda aperta su ogni lato, ricordo che in un suo seminario Derrida aveva affermato che l’ospitalità senza condizioni vuol dire ricevere l’altro a casa propria e lasciargliela. Pensare l’impossibile, l’iperbolico che è in tensione e si fracassa sull’impossibile. Se ci sbarazziamo della nozione di ospitalità senza condizioni viviamo nell’illusione di esserci sbarazzati del problema stesso. Non si può accogliere perché le condizioni non lo consentono? Non abbiamo i mezzi per poter aprire le frontiere ai migranti? Il principio di ospitalità senza condizioni ci insegna che dobbiamo cercare, senza sosta, i modi per farlo.

Marta Segarra ha fatto riferimento al sodalizio tra Jacques Derrida e la scrittrice Hélène Cixous, parlando della «precoce esperienza dell’esclusione» in quanto stranieri (in «La lingua che verrà», Meltemi, 2008), ma anche della pluri-appartenenza che diviene per entrambi sentimento di non appartenenza…
BERGER: È vero che Derrida e Cixous condividono una storia comune, attraversata anche da differenze. Entrambi sono nati in Algeria in famiglie ebraiche, ma senza abitare negli stessi quartieri. La loro esperienza comune, quella di giudeo-magrebini, li pone in una situazione che potremmo definire «decostruttrice». Non sono coloni venuti dalla Francia e, allo stesso tempo, sono autoctoni senza esserlo – cresciuti, pur diversamente, nella lingua francese. Tutti e due hanno condiviso una significativa relazione con la lingua: Cixous di famiglia multilingue, per origine e per apprentissage (tedesca, francese, araba e inglese); Derrida definendosi monolingue e affermando allo stesso tempo: «ho solo una lingua, e non è la mia». La loro è una forma di appartenenza aperta, incompleta, divisa tra i mondi – secondo un movimento di disappartenenza, che permette di decostruire la nozione di identità. Cosa significa «identificarsi» quando non è possibile farlo veramente? Come farlo in riferimento alle circostanze biografiche della comunità ebraica dell’Algeria coloniale e in seguito alle leggi antisemitiche del regime di Vichy? Da una parte si interroga qui la questione del rimpatrio dei coloni francesi e, dall’altra, quella dell’apolidia. Entrambi vittime della dominazione e dello sdegno nei confronti della comunità algerina. Entrambi testimoni della guerra di decolonizzazione. Si tratta di differenze ma anche di esperienze comuni che hanno costituito uno dei vettori del loro dialogo. Derrida e Cixous non sono pensatori «del ritorno» ma «del venire». Dell’arrivance – un’«arrivanza» che non guarda né al suo punto d’origine né a quello di destinazione.

Guardando all’opera di Derrida «L’animale che dunque sono» (Jaca Book, 2006), il filosofo Samuel Weber ha parlato del concetto di limite, spiegando come, in opposizione alla tradizione cartesiana, sia possibile concepire una logica altra in cui il limite tra umano e animale possa essere ripensato. Derrida interroga quel bordo indivisibile, l’«abîme» che dà forma a questa frontiera plurale – una limitrofia che è confine dinamico…
ALFANDARY: Nella lettura di Weber è interessante la questione della linea di condivisione, una maniera di situarsi e di vigilare. Weber ricordava infatti come nell’etimologia della parola woke – participio passato del verbo «to wake» da cui è nata l’espressione peggiorativa «wokismo» – ci sia l’idea di vegliare, vigilare nei confronti dell’ingiustizia. Ciò comporta anche scavare e complicare i rapporti tra le cose, proprio quelli che vorremmo semplici e rassicuranti. Derrida scava quella frontiera metafisica tra l’uomo e l’animale che ha rassicurato un buon numero di filosofi partendo da Aristotele e almeno fino a Heiddeger: lo fa leggendo Lacan, rileggendo Cartesio. La decostruzione non è né specista né antispecista, interroga quel limite tra umano e animale. L’animale non è continuo all’uomo, ma è proprio quel «malessere» che li divide che può essere decostruito. Il gesto della decostruzione è porsi in quella frontiera, proprio in quel limite; significa dissotterrare e complicare questa articolazione, tra il proprio e l’improprio. Guardiamo al mondo onirico: secondo Freud il sogno stesso è attivato da quegli elementi definiti «resti diurni» e non c’è separazione netta tra conscio e inconscio. Tra sogno, conscio e inconscio c’è permeabilità e circolazione. La decostruzione guarda da vicino quelle differenze dicotomiche che rassicurano la filosofia europea, da Platone in poi. Per questo può spaventarci, proprio in ordine a quel potenziale d’angoscia che ci riporta a una complessità inevitabile che abbiamo tentato di cancellare.