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Derby di periferia

Cartelli di strada Il termine anglofono «derby», oltre a essere il nome di una città dell’Inghilterra centrale, è largamente usato nel linguaggio sportivo. Richiama una corsa di galoppo per puledri, di antica istituzione; […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 25 gennaio 2020

Il termine anglofono «derby», oltre a essere il nome di una città dell’Inghilterra centrale, è largamente usato nel linguaggio sportivo. Richiama una corsa di galoppo per puledri, di antica istituzione; generici incontri agonistici di particolare rilevanza; soprattutto partite di calcio fra squadre che rivaleggiano per il primato in una specifica area geografica. Il derby era anche il marchio di un succo di frutta imbottigliato. Aggiungendovi un analcolico dal gusto asprigno (più analcolico e meno succo) e miscelando con ghiaccio tritato si otteneva un miscuglio al quale un barman di periferia aveva dato un nome ricercato e piuttosto lungo, ma che noi chiamavamo semplicemente derby. La sua diffusione era circoscritta negli ambienti che frequentavamo, ovvero fra i clienti (pensionati e giovani disoccupati) del bar di quartiere. La cui parrocchia era stata affidata a un prete-operaio, già tornitore in fabbrica, che aveva organizzato un viaggio col pullman a Milano per noi, ragazzi di provincia, una visita didattica nella fiera campionaria di primavera, ubicata ancora (primi anni ’70) in una zona semicentrale. Il piazzale dell’ingresso-sud lambiva via Monte Rosa dove, poco più avanti, si ergeva la palazzina in stile liberty di un locale notturno che possedeva un nome ormai familiare: Derby. Apprendemmo che il Derby Club, di cui avevamo ignorato fino ad allora l’esistenza, era un locale alternativo e in quel periodo il più alla moda di tutta Milano; offriva scene di cabaret e musica dal vivo animate da giovanotti intraprendenti che gettavano le basi per compiere il salto nello spettacolo televisivo. Sarebbe stato piacevole e coinvolgente andarci per trascorrere qualche ora, pensammo; ma si sa, stando in viaggio, con i giorni contati e in più il prete-operaio come capo comitiva che esortava a prendere visione delle macchine utensili esposte in fiera, si programma una cosa e poi se ne decide un’altra. La serata al Derby dunque sfumò. Non il proposito di bere almeno un derby, che il nome di quel locale aveva sollecitato. Nonostante il parroco, che avremmo mandato tranquillamente a farsi benedire, lui e i suoi torni e le sue frese. Entrati in un bar del centro con l’idea di farcelo servire, ne uscimmo con le labbra arrossate per averle tenute poggiate agli orli roventi di una tazzina porcellanata. Avevamo chiesto rassegnati, infatti, un banale caffè. Nient’altro. Era scoccata l’ora della pausa di mezzodì nella metropoli e la massa di impiegati riversatasi in strada dagli uffici sgomitava chiassosa al bancone dei bar. Chi ci avrebbe potuto dare retta per preparare quel miscuglio sconosciuto e di dubbio gusto, che chiamavamo derby, sorseggiato altrimenti nella quiete mortale di un bar di periferia?

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