Derain, artista ontologico troppo impregnato di trementina
A Mendrisio, Museo d'Arte, "André Derain. Sperimentatore controcorrente", a cura di Simone Soldini, Barbara Paltenghi Malacrida e Francesco Poli Nel recente ritorno di attenzione sul pittore di Chatou, la mostra ticinese ha il merito di focalizzare sulla lunga stagione (anni venti-dopoguerra) segnata dal dubbio e dal fantasma degli «antichi maestri», e di sfatare la taccia di «antimoderno»
A Mendrisio, Museo d'Arte, "André Derain. Sperimentatore controcorrente", a cura di Simone Soldini, Barbara Paltenghi Malacrida e Francesco Poli Nel recente ritorno di attenzione sul pittore di Chatou, la mostra ticinese ha il merito di focalizzare sulla lunga stagione (anni venti-dopoguerra) segnata dal dubbio e dal fantasma degli «antichi maestri», e di sfatare la taccia di «antimoderno»
Uno sguardo barbaro, tabula rasa dei preconcetti culturali, per penetrare il segreto di André Derain! In attesa dell’impossibile, eccoci qui, di nuovo, a interrogare quel segreto, a chiederci come l’artista riuscisse a conciliare la sua leggendaria maestria, la sua abilità, con il dubbio e la bile nera. Ma, li conciliava?
Il segreto di Derain ha una lunga storia, che rimonta ai giorni in cui, ragazzo a Chatou, figlio di lattai, si era messo al seguito di un certo Jacomin, pittore dilettante, strambo, che lo portava a dipingere in campagna, anche di notte, con le lampade. È abbastanza nota la testimonianza tarda di Derain, resa alla giovane redattrice di «Vogue» Edmonde Charles-Roux: «…Verso le due o le tre del mattino, tornavamo a casa con tutto il materiale… Eravamo inzuppati di rugiada e le tele erano tutte bagnate. Era magnifico. Poi ognuno si ritirava, accomiatandosi dagli altri con un cordiale arrivederci. E andavamo a dormire con una pace nell’animo che dopo di allora non ho mai più provato».
Parla così dal ritiro di Chambourcy negli anni della solitudine, quando la taccia, infondata, di collaborazionismo, sommatasi a quella, altrettanto infondata, di antimoderno, lo ha messo totalmente fuori gioco. Straziante, ma in quelle parole non è tanto lo strazio che colpisce, quanto l’immagine edenica del dipingere, così propria a Derain. Infatti, la pittura è un eden da cui i moderni sono stati cacciati. In questo modo, per Derain, essa viene ad assumere significati che la trascendono, e non per caso uno dei lettori più perspicui della sua opera, Jean Leymarie, parlò, già nel titolo della monografia 1949, di «retour à l’ontologie».
Sappiamo che Derain suscitò un febbrile interesse, seguìto poi da violenta abiura, nel giovane Breton, che vi avvertiva, nell’immediato primo dopoguerra, l’inquietudine di chi intende superare i confini del suo mezzo espressivo. Fu colpito, e ne testimonia in un articolo del marzo 1921, dall’emozione con cui Derain parlava del punto bianco ricercato, senza vera consapevolezza, «da certi pittori di nature morte del Seicento, fiamminghi o olandesi», per «mettere in risalto un vaso, un frutto». Ma questo punto bianco non ha nulla a che fare, spiegava Breton, «con il colore dell’oggetto o con l’intensità della luce, e dal punto di vista della composizione nulla giustifica la sua presenza», e faceva l’esempio di una candela accesa nella notte e poi allontanata dall’occhio fino a diventare una pura fiamma, la cui «grandezza» e «distanza» risultano indistinguibili. Il punto bianco, dunque, cade fuori dall’ordine del rappresentabile, cioè del processo mimetico. Appassionato di alchimia, Derain concepisce la pittura come ricerca della pietra filosofale, capace di risanare la corruzione della materia. Ma la pittura è materia, non può darsi fuori della materia, e di qui il suo ‘dubbio’, il saturnino rimuginare. Maestro nell’economia dei mezzi, egli, in certe piccole tele del secondo dopoguerra, arriva ad affidarsi a esili tracciati luminosi su fondo lavagna: non sprezzatura, ma il desiderio di dipingere senza dipingere.
Come il Frenhofer di Balzac
Cercatore di assoluto come il Frenhofer balzachiano, Derain vive la pittura quale campo di prova e necessità di fallimento: lo vide lucidamente Alberto Giacometti (vedi, a fianco, l’articolo di Simone Soldini). È in questa chiave che andrebbe inteso l’‘eclettismo’ così spesso rimproveratogli dalla critica «progressista», incapace di immaginare una modernità ‘altra’ al di fuori del diagramma stabilito dalle avanguardie primo-novecentesche. Tanto più che in quella temperie Derain era stato, nei momenti sia fauve che cézanniano-cubista, uno dei battistrada, se non addirittura, come voleva Gertrude Stein, «il Cristoforo Colombo della pittura moderna», delle cui scoperte tutti gli altri approfittano.
Dietro la fissazione per gli ‘antichi maestri’, specie di lari cui si rivolge lungo tutta la sua parabola (massima la predilezione per Corot, vero rifugio degli anni finali), rode in Derain la disillusione sullo stato presente, non risolvibile con il ritorno al ‘mestiere’: in questo, nonostante l’analogia dei precetti, è abissale lo scarto mentale con De Chirico. «Mi sembra di aver già vissuto, e che le mie aspirazioni si siano inutilmente realizzate» (lettera a Vlaminck, 25 febbraio 1903: ha 23 anni!). Derain, in realtà, è il più moderno di ogni moderno, e se un artista gli tende la mano questi è, non troppo avventurosamente, Duchamp.
Lo intuì, in un saggio del 1987, Philippe Dagen, il critico cui si deve, proprio a partire dagli anni ottanta, uno sguardo nuovo e libero sull’artista. Simile, in Duchamp e Derain, l’idea di ‘esaurimento’ della pittura, ma mentre il primo, più giovane ed elastico, ne fuoriesce senza troppi sforzi, l’altro, troppo impregnato di trementina, agganciato generazionalmente (nascita 1880) al moto di inizio secolo, che aveva voluto rigenerarla, la pittura, resta in una disperante terra di mezzo, a coltivare le sue disfatte. Anche Derain, come Duchamp, ha in odio la ripetizione, ma, non riuscendo a liberarsi del ‘retinico’, batte strade ogni volta diverse, si maschera, si estroflette, che sarebbe il suo eclettismo. Ogni strada è sbarrata, però: nessuna redenzione. Anche quando, nei favolosi anni venti, dopo la tremenda esperienza delle trincee la fortuna gli arride e sembra rilassarsi sui suoi successi, cedere alla ‘facilità’ in particolare nei ritratti mondani, si avverte che ha accantonato un problema. Scorrazza in Bugatti, cena alla Coupole, ma il problema torna sempre a mordere, via via con più violenza.
Notevole, nell’ultima stagione, il ritorno di interesse per Derain. A parte la capillare monografia di Michel Charzat (Hazan, 2015), sottotitolo Le titan foudroyé, si sono susseguite tre mostre, l’ultima delle quali, qui recensita, si svolge, fino al 31 gennaio, nel Museo d’Arte Mendrisio: André Derain. Sperimentatore controcorrente. Voluta e organizzata da Simone Soldini, che la firma insieme a Barbara Paltrenghi Malacrida e Francesco Poli, essa ha il merito, rispetto alla precedente del Centre Pompidou (2017), che trattava il decennio di esordio 1904-’14, di focalizzare sul seguito, fino al secondo dopoguerra. Gli argomenti in campo, dunque, sono piuttosto quelli già portati al centro, sempre nel ’17, dall’altra – indimenticabile – mostra parigina Derain, Balthus, Giacometti. Une amitié artistique, al Musée de la Ville.
Il sostegno di Pierre Lévy
Per l’occasione ticinese si è fatto conto soprattutto su due ricche ‘cave’, la Galerie Michel Giraud di Parigi e il Musée d’Art Moderne di Troyes, attualmente chiuso, fondato su quella che fu la strepitosa collezione (soprattutto arte francese interbellica) di Pierre Lévy, l’industriale della maglieria che alleviò, con la sua amicizia ‘d’atelier’, l’angoscia di Derain al crepuscolo (le sue memorie, Des artistes et un collectionneur, Flammarion, 1976). La relativa scarsità di prestiti clamorosi – ma c’è, concesso dal Pompidou, Portrait d’Iturrino, a rappresentare con intensità massima il periodo cosiddetto ‘gotico’ o ‘bizantino’ – non impedisce a Mendrisio un’affascinante escavazione di problemi. Ciò è dovuto sì all’intelligenza dei curatori, ma anche alla capacità di Derain, davvero unica, di stare tutto intero in qualsiasi porzione, anche mancata, minima o ‘giocata’, della sua produzione. Persino nelle fusioni post mortem, «giacomettiane», dei piccoli divertimenti in terracotta realizzati a partire dalla fine del ’38, fusioni cui la mostra, accanto a vari esempi di arte applicata, dedica un inatteso finale.
Pure la scelta di presentare l’opera secondo una sequenza cronologica intervallata da spaccati di genere (nudi, ritratti, nature morte, paesaggi) sembra, per una volta, giustificata da ragioni non corrive, adattandosi a un artista che, come notò Isabelle Monod-Fontaine in un saggio del 2006, «respingeva qualsiasi interpretazione retrospettiva del suo percorso», secondo un’idea astorica del passato: passato che nel 1920, in una lettera a Kahnweiler, egli giudicava «morto e sepolto, non (…) mai esistito», qualora manchi «la leggenda a dare continuità all’immaginazione e a collegare tutte le immaginazioni possibili».
In ogni pittore che non fosse Derain, l’enorme bagaglio di immagini, occidentali e primitive, antiche e moderne, da lui ingordamente accumulate con intenzione utilitaria, avrebbe dato luogo, più o meno, a effetti di risulta, alla morte del temperamento. Nella sua opera, invece, tutti i riferimenti figurativi, anche i più scoperti, divengono oggetto di una demarche che sposta l’asse della visione. Niente di antiquariale: la forma è ispirata ai maestri, ma egli se ne libera subito e agilmente come di una scoria. In Pont dans un paysage provençal, 1930, Corot si trasfonde in un baleno in Derain!
Fra le varie piste suggerite dalla mostra, ce n’è una: la ricerca della luce, che si può forse percorrere meglio delle altre, avendo a disposizione un buon numero di dipinti referenti. Chiusasi, con la cesura bellica, la stagione del rivolgimento plastico, la luce torna al centro dell’attenzione. C’è chi, come Jacques Villon, senza rinnegare i presupposti modernisti, verso l’inizio degli anni trenta giunge a formulare il problema nel modo più oggettivo: attraverso la stretta cooperazione del cerchio cromatico e del prisma, «crea uno spazio suscettibile di scomporre la luce» (Dora Vallier). Soluzione platonica, architetture di luce. Derain, al contrario, risale al principio caravaggesco, meglio ‘olandese’, e tuttavia non riesce ad adagiarvisi, cosciente dei rischi che comporta ogni ritorno indietro, e troppo moderno per non sapere, con Valéry, che «niente è più capriccioso della distribuzione delle luci e delle ombre sulle ore e sugli uomini».
1940, mostra a New York
Cosa fa? Vediamo le nature morte: ce n’è di più tradizionali, grandi, opulente, perentoria la presenza degli oggetti, scavati su fondo terroso dalla luce a fiotto. Un tipo di produzione che impressionò nell’importante mostra della primavera 1940 organizzata a New York da Pierre Matisse, il quale, rivolgendosi a un acquirente, teneva a vantarne la somiglianza non con Picasso, ma con Manet, Courbet, Gericault, Velázquez. Parallelamente Derain sviluppa una maniera più sperimentale, destinata perlopiù al piccolo formato, e intrisa, scrive Francesco Poli nel saggio in catalogo, di «quell’esoterica idea di luce (con valenze alchemiche)» di cui egli «aveva parlato a Breton».
La sensibilità ‘ontologica’ porta Derain a fantasticare che la luce si annidi negli oggetti. Compito del pittore sarebbe trarla fuori, ma non essendo un Cagliostro, egli, con i miseri strumenti di cui dispone, non può che ingegnarsi di alludere nel modo più credibile. Come propose Gaston Diehl, 1964, gli viene in soccorso il teatro, i cui accorgimenti – acquisiti lavorando a scenografie e costumi sin da quando, nel 1921, era stato chiamato da Diaghilev per il balletto La Boutique Fantasque – Derain trasferisce sui dipinti da cavalletto. Un esempio: nel quadro meraviglioso dei tardi anni trenta Geneviève à la pomme (proprietà Geneviève Taillade, pronipote del pittore), l’illuminazione di taglio è troppo battente, abbaglia, quasi provenisse da un faro di scena o da un flash, dal che l’intensità magica dei toni locali, l’impressione che la luce si sprigioni dall’interno del reale e, come l’artista dichiarò nel 1935 a René Crevel, che «la sola materia della pittura sia la luce».
Anche la rapidità del segno, tipica del sintetismo di Derain, sembra trovare nuove risorse negli espedienti delle invenzioni teatrali… l’ultimo tocco prima del sipario. Le figure umane ne escono artefatte (Geneviève, nipote adorata, un manichino), fino alle fragili telette degli anni quaranta-cinquanta – in mostra una fantastica cernita – con i gruppi strepitanti di ninfe, baigneuses, cavalieri, baccanti risolti in spigolosi o guizzanti abbozzi di luce. La corsività luministica trasforma lo stesso paesaggio, per Derain specchio dell’anima, in una «teatralizzazione della sua malinconia» (Monod-Fontaine), come documentano, minimi e ‘apocalittici’, il Paysage triste e il Paysage sinistre.
Nel gareggiare con i capricci e i segreti della luce, faustiano (giusto il riferimento di Charzat nell’introduzione al catalogo), alla fine il segno giunge a farsi esile bava, filamento, un’impronta sul limite del visibile, quasi a evocazione di uno spettro: e lo spettro è la realtà, la realtà inconoscibile!
Così, l’8 settembre 1954, nel delirio, prima di morire, Derain chiede per regalo «un pezzo di cielo blu e una bicicletta».
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