La legge di ratifica del protocollo Italia-Albania è stata votata dal parlamento e Giorgia Meloni sa di poter contare sull’appoggio politico di molti Paesi Ue. Il suo governo vuole archiviare la questione dei costi spropositati, per ora circa un miliardo in cinque anni, sostenendo che si tratta di «investimenti» e non spese. Per il funzionamento dei centri nel Paese delle Aquile, però, restano diversi scogli da superare.

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ALCUNI SONO di natura logistica. In primo luogo rispetto alle procedure di selezione dei migranti che possono essere detenuti al di là dell’Adriatico: solo quelli che non presentano condizioni di vulnerabilità e provengono da Paesi che l’Italia considera «sicuri». Non è chiaro dove saranno effettuati gli screening e con quale personale. Il fatto che ci sia di mezzo il mare complica i progetti dell’esecutivo. C’è poi un tema di sicurezza durante trasferimenti e detenzione amministrativa. La storia dei Cpr italiani è costellata di rivolte. Su dieci centri operativi due, Torino e Trapani, sono chiusi per le ribellioni dei trattenuti, altri hanno una capienza limitata per la distruzione di interi settori. Altri ostacoli sono di carattere giuridico: non di poco conto visto che l’azzardo meloniano apre scenari completamente nuovi sul piano giurisdizionale. Nuovi saranno dunque i problemi in tema di diritti e garanzie. Due su tutti: la legittimità del trattenimento dei richiedenti asilo e la definizione di «Paesi sicuri».

A MARZO 2023 il decreto Cutro ha introdotto la possibilità di detenere durante l’iter per la protezione internazionale i migranti che sbarcano in Italia se sono originari di Stati «sicuri». Lo scorso autunno è esploso un contenzioso giuridico perché il tribunale di Catania non ha convalidato questi trattenimenti. Il ricorso del Viminale è finito alle Sezioni unite della Cassazione, che hanno interrogato la Corte di giustizia Ue sul punto della norma che prevede una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione. La legge nazionale rispetta le direttive Ue? La risposta non arriverà prima di un paio d’anni.

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IL PROBLEMA per il governo è che si tratta della stessa norma alla base dei trattenimenti in Albania. Sulle quali dovrà esprimersi il tribunale di Roma, la sezione specializzata in materia di immigrazione. È verosimile che con il quesito pendente davanti alla Corte Ue i giudici di merito si muovano in direzione analoga ai colleghi catanesi. Fermo restando che il governo potrebbe modificare la norma e far ripartire la storia da zero. Nei centri Gjader e Shengjin, però, la situazione sarà eccezionale: vale la giurisdizione italiana, ma sono in territorio albanese. La Commissione Ue, ovvero il potere esecutivo, ha sostenuto che per questo non si applica il diritto comunitario, ma solo quello nazionale. Significherebbe che i trattenimenti non sono di competenza dei giudici del Lussemburgo. È da vedere come interpreterà la questione il potere giudiziario, italiano ed europeo. Se valessero solo le norme nazionali, comunque, si aprirebbe una questione ulteriore sulla legittimità della detenzione amministrativa. Le leggi comunitarie la consentono a determinate condizioni e fini, ma è assente dal dettato costituzionale.

A MONTE RESTA poi la domanda su chi decide se un Paese è «sicuro» oppure no. Recentemente il governo ha esteso la lista a 22 Stati. Significa che i rispettivi cittadini sono sottoposti a procedure d’asilo accelerate e con molte meno garanzie. Se la richiesta è presentata in frontiera, come detto, è possibile trattenerli. L’allegato I della «direttiva procedure» stabilisce i criteri per ritenere un Paese sicuro: fondamentalmente deve valere lo Stato di diritto, perché oltre a essere escluse in senso generale persecuzioni, torture, trattamenti inumani o degradanti deve esistere «un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di diritti e libertà».

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È DIFFICILE credere che tali presupposti siano presenti in Bangladesh, Egitto o Camerun, aggiunti di recente, oppure nella Tunisia in cui Kais Saied ha assunto pieni poteri. Per questo lo scorso autunno il tribunale di Firenze ha disapplicato il decreto contestando la previsione di sicurezza per quest’ultimo Paese. Di recente le Sezioni unite hanno stabilito che il magistrato ha il potere di vigilare sulla lista dei Paesi sicuri. Ma il giudice civile, a differenza di quello amministrativo, valuta il caso singolo e non può obbligare a nulla l’amministrazione. La Tunisia resta dunque nell’elenco. Del resto dopo le decisioni fiorentine non si è consolidato un orientamento in altre corti, anzi una diversa sezione dello stesso tribunale ha optato per un’interpretazione opposta.

AL MOMENTO la disapplicazione del decreto, per ragioni procedurali, è passata in secondo piano. Potrebbe però riproporsi con le detenzioni di massa in Albania. Il conflitto sulla definizione di Paesi sicuri è intanto arrivato in Lussemburgo. Una causa di un giudice ceco e due del tribunale di Firenze chiedono alla Corte Ue di stabilire se Stati in cui la «sicurezza» non vale in tutto il territorio, come la Moldavia per la presenza della Transnistria, o per l’intera popolazione, come Nigeria e Costa d’Avorio a causa dell’esclusione di vari gruppi sociali, possano rientrare o meno nell’elenco. Nel primo caso la Grande Camera deciderà nei prossimi mesi, gli altri due sono stati sollevati tre settimane fa e, a meno vengano accorpati a quello ceco, avranno bisogno di tempo. Queste decisioni, competenza Ue permettendo, possono avere effetti importanti sul progetto albanese.

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LE COSE cambieranno radicalmente con il nuovo Patto europeo su immigrazione e asilo, regolamento Ue direttamente applicabile che sostituisce le direttive e prevede il trattenimento generalizzato non solo dei richiedenti di Paesi sicuri ma di tutti quelli provenienti da Stati per cui il tasso di riconoscimento dell’asilo è inferiore al 20%. Entra in vigore il prossimo 11 giugno, ma sarà attuabile dal 2026. Forse tardi per gli obiettivi di Meloni, non certo per rendere strutturale la detenzione di massa dei cittadini stranieri fuori dai confini Ue.