In nessun campo come quello delle politiche migratorie il governo di Giorgia Meloni ha mostrato quanto possano essere lontani il dire e il fare. Non solo perché di mezzo c’è quel mare dove gli slogan su blocchi navali e porti chiusi continuano a sbattere, grazie a norme di rango costituzionale scritte quando ancora si credeva che i diritti fondamentali andassero riconosciuti a ogni persona. Costringendo a subappaltare il lavoro sporco ai regimi al di là del Mediterraneo. La novità più grande, infatti, si è vista a terra.

Cercando di farsi notare il meno possibile, il governo di destra-centro ha varato il più grande decreto flussi degli ultimi anni che prevede l’ingresso regolare di oltre 450mila lavoratori stranieri fino al 2025. Ed è solo l’inizio: quei numeri, pur importanti, sono una mediazione tra le reali esigenze del mercato del lavoro e le retoriche identitarie spacciate dai partiti di maggioranza in cambio di voti.

Una mediazione al ribasso. Lo testimoniano le richieste di assunzioni dall’estero, che a ogni click day moltiplicano per quattro, cinque o persino sei (come avvenuto a marzo scorso con 690mila domande a fronte di 151mila posti e nel 2023: 462mila contro 82mila) le quote disponibili. Meloni può dare la colpa alla criminalità organizzata, ed è certo che frontiere e ostacoli alla mobilità abbiano un effetto criminogeno e siano fonte di economie illegali, ma così non risolverà i suoi problemi.

I capri espiatori sono utili nell’agone politico, soprattutto in campagna elettorale, del resto per anni si è data la colpa della carenza di manodopera al reddito di cittadinanza, ma nulla possono sulle dinamiche strutturali.

Mentre le culle «dop» restano vuote, i pochi figli crescono e le mamme imbiancano. E Bankitalia avvisa che nel 2040, dopodomani, potrebbero esserci 5,4 milioni di persone in età da lavoro in meno. Tradotto: -13% di Pil (-9% pro capite), vale a dire tenuta dei sistemi pensionistici e di welfare a forte rischio.

Nemmeno la destra può permetterlo: insieme a mari e deserti trasformati in cimiteri, accanto a campi di prigionia e tortura alle frontiere europee, mentre umilia i richiedenti asilo nei centri di accoglienza straordinaria preparandoli allo sfruttamento, deve creare strumenti efficienti di selezione del capitale umano da importare. Magari prediligendo quello con la croce al collo invece che il velo in testa, con la pelle chiara. Ma in fin dei conti sono sfumature. Il punto vero è che i decreti flussi non sono all’altezza della crisi demografica e della carenza, strutturale, di lavoratori.

Non è l’unico problema. Dall’altro lato dello schieramento politico, o della barricata, bisogna stare attenti a credere che il modello funzionalista applicato alle politiche migratorie sia la soluzione a sovranismi e identitarismi. Gli interessi di padroni residenti e lavoratori immigrati potrebbero anche incontrarsi in qualche punto, ma le linee restano linee. Per esempio quella che subordina la regolarità del soggiorno, e dunque la possibilità di avere diritti o fare vertenze, al contratto di lavoro.

È questo legame che va fatto saltare per aprire la strada a una politica migratoria che non risponda alle esigenze dei mercati ma a quelle dei lavoratori. Non è un caso che ieri Meloni si sia detta disponibile a superare la Bossi-Fini, che ha fallito, solo «nel rispetto del principio che l’aveva ispirata». Cioè il nesso permanenza-lavoro, quello che rende possibile sfruttare i cittadini stranieri in condizione di irregolarità e ricattare anche quelli che i documenti ce li hanno. Proprio il nesso da abbattere.