In quello che è un drammatico slittamento di senso delle classi sociali dalla borghesia al proletariato in un miscuglio difficilmente definibile e riconoscibile, resta stabile la forma della famiglia come istituzione, tanto più nella sua struttura drammaticamente intima e privata e tanto più in Italia. Un luogo ristretto di scambio obbligato e spesso violento tra genitori e figli. Un ambito che deve la propria solidità non altro che alla fuga dal campo sociale e dalla perdita di presa della comunità sugli individui. Ed è proprio all’interno di questo spazio soffocante che indaga con impavida audacia il romanzo d’esordio di Ilaria Caffio, Bara di seta (Solferino, pp. 144, euro 16).

IL ROMANZO MOSTRA la violenza spesso implosa e nascosta che la famiglia mette in atto e al tempo stesso cela premurosamente al proprio interno. Il movimento è quello di una macchina che si nutre sadicamente del proprio stesso dolore, sia di quello subito così come di quello profuso. Bara di seta agisce così lavorando attorno alle immagini minime di una «casalinghitudine» che vive il dramma di una disperante perseveranza, di un’infinita agonia capace di trasformare la morte stessa in una possibile (e sperabile) liberazione.

Lo sguardo è quello di una figlia la cui unica alleata è una sorella – per certi versi quella proposta da Ilaria Caffio è una visione di sorellanza capace di proteggere e rassicurare. Lo sguardo verso i genitori, soprattutto verso la madre, è di necessario distacco da una tragedia imminente, da una decadenza lasciva e scialba che corre incontro al suo destino seminando la casa di tracce minime, ma emblematiche di un dolore acuto e irriducibile.

La crescita diviene così una forma di fuga obbligata da una realtà che richiede per sopravvivere un’attitudine al gioco, una disciplina solida capace di darsi elasticità, pena una durezza fragilissima pronta a infrangersi davanti al primo muro.

L’AUTRICE EVITA sempre accuratamente di mostrare il centro della scena. Il dolore è invedibile, come nella lezione cinematografica di Michael Haneke, l’obiettivo della camera, così come quello della scrittura necessita di uno scivolamento obbligato, la tragedia è un movimento che richiede al suo compiersi una forma di pensosità commovente. È in ciò che rimane che alla fine si rivela l’orrore, è nelle tracce lasciate che si intuisce la forma compiuta del pericolo.
Testo inospitale e irrequieto, Bara di seta rivela una voce originale e consapevole, una qualità rara e distintiva nel ricordare, in un tempo sbadato, come la banalità del male attecchisca nei corpi più imprevedibili prima ancora che negli stati totalitari. L’impurezza diviene così lo spazio aperto dentro le cui pieghe è possibile ritrovare di sé il proprio intimo senso, la propria necessaria forma di pienezza capace di ribellarsi a uno status quo dato per definitivo. Obbligata a una sua rivoluzione, la protagonista – anche attraverso il racconto puntuto di oggetti e fatti minimi – reagisce a un dolore a lungo tenuto represso.