Dentro quei mostri c’è una parte di noi
Cinema Tra i film di George A. Romero, morto domenica notte, «Dawn of the Dead» del 1978, tradotto in italiano come «Zombi». Un'opera piena di allegorie e che raccontava la nostra società dove l'Apocalisse non è la fine di nulla ma un modo di vita immanente
Cinema Tra i film di George A. Romero, morto domenica notte, «Dawn of the Dead» del 1978, tradotto in italiano come «Zombi». Un'opera piena di allegorie e che raccontava la nostra società dove l'Apocalisse non è la fine di nulla ma un modo di vita immanente
Visti da lontano, gli zombi si somigliano un po’ tutti. Eppure, in tanti anni di fedeltà al genere, Romero non ha mai smesso di scoprirne di nuovi, filmando i suoi mostri scarnificati con l’occhio dell’antropologo documentarista, scoprendone e catalogandone specie e comportamenti. Ovviamente, ogni zombi ci somiglia, nella misura in cui anticipa quello che saremo: morti. Questo è evidente. Guardandoli più da vicino si scopre che le carcasse affamate degli zombi anticipano soprattutto quello che già siamo, senza saperlo: non propriamente vivi. In questo senso, il più inattuale di tutta la sua immensa e geniale galleria, il miglior non-morto per così dire, è quello studiato nel 1978, nel film Dawn of The Dead, alla lettera l’alba dei morti e che il distributore italiano ha ribattezzato semplicemente con il titolo Zombi.
La notte è passata, gli zombi hanno vinto. La società non è stata in grado di reagire al problema e ne è stata sopraffatta. Restano solo alcuni superstiti, scaraventati allo stato di natura. Due uomini e una donna, fuggono da una stazione televisiva a bordo di un elicottero. Dopo alcune ore di volo, il genio di Romero li fa atterrare sul tetto di un gigantesco centro commerciale. La genialità sta in una doppia allegoria. Ad un primo livello il film dice ovviamente: noi siamo loro e loro sono noi. Gli zombi vagano per lo shopping mall perché è quello che gli piaceva fare quando erano in vita. Ora, va ricordato che, quando il film è uscito in Europa, questo aspetto era per il pubblico assolutamente fantascientifico. Chi avrebbe sospettato, da questa parte dell’Atlantico, che un giorno saremmo stati così inetti da farci sostituire le nostre belle città, le nostre piazze e i nostri commerci da quelle prigioni per consumatori ? Certo, gli Americani, popolo di consumatori senza radici storiche. Ma non qui da noi ! È con gli occhi divertiti che vedevamo questo Romero al quale faceva eco una scena mitica di The Blues Brothers, dove i due fratelli mettono a soqquadro con gioia un centro commerciale.
Eppure, guardando questi film, non può non venire un sentimento di amarezza. Quel messaggio era per noi. Eravamo ancora in tempo. Ma non lo abbiamo capito e non abbiamo resistito. Ed ora le nostre città sono tutte circondate da questi moderni panopticon. Ecco che riviene in mente la prima parte del film: la sequenza ambientata nello studio televisivo dove, davanti e dietro le telecamere, va in scena l’incapacità dell’uomo sociale a organizzarsi razionalmente, a discutere, a far prevalere l’interesse generale sull’istinto di sopravvivenza e sulla paura. Politico, Zombi non lo è tanto nel senso in cui denuncia uno stato di cose. Lo è perché fa esplodere in faccia allo spettatore una domanda mai così attuale. Come è possibile una cosa così stupida e orrenda come la società capitalistica? I suoi zombi non sono che la rappresentazione dell’angoscia di poter fare la cosa giusta, ma non riuscirci. Di sentirsi umani, nel senso che vorremmo attribuire a questa parola, eppure di non poter esserlo effettivamente: vivendo pacificamente… Invece di scegliere sempre le fiamme, i gas, la morte.
Se gli zombi siamo noi, chi sono i sopravvissuti? Sballottati dagli eventi sul piccolo elicottero, senza benzina e senza cibo, fanno pensare ai poveri pellegrini del Mayflowers. Ma attenzione a donargli un tacchino, perché presto si trasformano in feroci colonizzatori, assai più temibili degli stessi zombi… La seconda allegoria del film è questa: gli zombi sono i nuovi indiani d’America, e noi siamo qui per sterminarli e depredarli. La storia si ripete, prendendo anch’essa le sembianze di un non-morto. Il ritorno eterno dell’uguale. Uguale nella follia e nella morte, diversa solo nell’ampiezza della distruzione: l’Apocalisse non è la fine di nulla ma un modo di vita immanente, strutturalmente legato al modo americano della riproduzione dell’esistenza. Modo che, dal 1978, ha avuto tutto il tempo di infeudare l’Europa, trovando in noi una resistenza degna di uno zombi.
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