«Nel laboratorio di restauro di mio padre ho imparato che tradurre in immagini la vita era stato per il pittore un compito professionale». Michelangelo Pistoletto era adolescente, la guerra era finita da poco, il boom economico ancora non era esploso e tutto era da reinventare. È proprio lì, in quel rapporto stretto con l’antico, nei negozi dei rigattieri e nel confronto fra culture diverse (come racconta nel suo libro La formula della creazione, Cittadellarte edizioni Biella, sorta di diario filosofico in cui sfogliare sessant’anni di ricerche) che Michelangelo Pistoletto pianta le solide radici del suo primo interrogarsi sul tempo e sulla sua dimensione di accadimento. «Non c’è un momento giusto per rinnovare il linguaggio: è sempre troppo tardi, se si accetta un meccanismo evolutivo generale. Bisogna che l’azione artistica contenga in sé un sistema dinamico individuale», scriveva già a metà degli anni ’60. E oggi – più di allora – il mondo richiede la necessità di un cambiamento poiché «se da una parte abbiamo raggiunto conquiste straordinarie, dall’altra stiamo rischiando la sopravvivenza dell’umanità».
L’appello accorato è, in lucida coerenza con una vita di studi e opere tutte protese verso lo stesso traguardo etico, al potere demiurgico e salvifico dell’arte. Per Pistoletto, infatti, «la formula della creazione non è ipotetica, non è un’idea religiosa, ma ha un rigore scientifico».
Vestito elegantemente di nero, con l’iconico cappello a fargli compagnia, improvvisato e divertito musicista mentre fa vibrare con la bacchetta i piatti da batteria e i coperchi delle pentole nel Terzo Paradiso che chiude il percorso espositivo, incontriamo Michelangelo Pistoletto in una soleggiata mattina romana al Chiostro del Bramante, nel giorno dell’inaugurazione di Infinity (visitabile fino al 15 ottobre), la retrospettiva curata da Danilo Eccher come fosse una narrazione viva, non museale. Un’avventura caleidoscopica dai contorni favolistici, che procede spedita fra cinquanta opere e quattro installazioni site specific.
Nato nel 1933 a Biella, l’artista – Leone d’oro alla Biennale nel 2003 – dichiara, all’alba dei suoi abbaglianti novant’anni, di ringiovanire via via che il tempo scorre perché se in origine si occupava di passato, ora, invece, si incammina verso il futuro: conduce i suoi esperimenti collettivi e s’inerpica lungo sentieri poco battuti da altri, seguendo le curvature magiche del suo Terzo Paradiso.

Possiamo cominciare dai «quadri specchianti» che, pur avendo segnato un esordio, sono rimasti per lei sempre un approdo aperto…
Ho imparato l’arte attraverso il passato accanto a mio padre, pittore tradizionale e restauratore. Ho subito potuto vedere che l’artista, in qualche modo, ha sempre cercato di trasformare ciò che esiste di fronte agli occhi. Che non è solo quel che si vede ma anche che succede – come le guerre, gli avvenimenti, le feste, i compleanni – oltre la realtà fisica. Sono due gli elementi con cui conviviamo: uno è artificiale, ciò che fa accadere l’uomo e l’altro è naturale, appartiene a un universo che procede per conto suo, a prescindere da noi.
Ecco, nei quadri specchianti li abbiamo entrambi: c’è l’universo che sta davanti allo specchio, cioè la realtà, il tempo che passa, lo spazio che si allunga e si allarga, l’infinito, ma c’è anche la società riflessa nello spettatore che sta guardando. È lui a entrare dentro l’opera insieme all’universo. L’artificio mentale e la natura universale si uniscono nel quadro specchiante attraverso il suo occhio e pensiero. Quella presenza lo rende  attore e coautore. Siamo coautori della società perché la costruiamo insieme. Lo specchio, lo specchiante mostra davanti a noi tutto l’esistente: è comunque qualcosa di virtuale che sta anche dietro, alle nostre spalle, ribaltando la prospettiva rinascimentale. Lo spettatore è quindi responsabile di qualsiasi movimento farà, può veramente vedere sé stesso, avanzando o indietreggiando.

Un’altra figura fondante della sua produzione artistica è il labirinto. Quei sinuosi meandri raccontano forse un disorientamento di fronte al procedere del mondo?
Il labirinto rappresenta la scelta continua, c’è sempre una dualità al suo interno. Bisogna decidere se andare da una parte o dall’altra. E in ogni caso si deve anche sapere che qualsiasi direzione si prenderà, se non si ha un filo di Arianna – quel pensiero che mentre vai avanti ti porta anche indietro, così come fa lo «specchiante» – in quel dedalo si finirà per essere inghiottiti dal mostro che sta aspettando, il Minotauro.
Non si può però essere pessimisti, è necessario riuscire a trovare l’equilibro, nonostante in agguato ci sia il rischio di cadere. La misura dell’ottimismo sta nella possibilità di soluzione del problema, cercando di non precipitare. L’artista deve avere fiducia in sé perché ha come passaporto la libertà, non di uccidere come James Bond, ma di creare quello che vorrebbe fosse. Non può affidarsi ad altri, immaginare di fare qualcosa di limitato e indifferente rispetto al mondo. Soprattutto, non può più essere al servizio di un sistema che ragiona al posto suo, come un tempo facevano la religione, la politica, l’economia. Adesso i grandi poteri devono eseguire e l’artista invece pensare, prendendo la strada della coscienza della massima libertà e responsabilità. E siccome è un fenomeno umano (e non riservato a pochi) è importante che diffonda la sua consapevolezza. Per questo è nata la Cittadellarte di Biella, l’università delle idee. La scuola è un luogo primario, cominciando dai bambini fino agli adulti.

«Love difference. Mar Mediterraneo», 2003-2005

La sua opera «Love difference» parla del Mediterraneo, attualmente luogo di catastrofi umanitarie…
Quando ho immaginato Love Difference (nel 2003, ndr) la situazione era drammatica ma non avrei mai creduto che ci potesse essere una tale degenerazione. Anche quando ho realizzato la Venere degli stracci lo spreco dato dal sistema consumistico esisteva già, eppure non aveva raggiunto i livelli odierni. Il Mediterraneo unisce tre continenti – Africa Asia e Europa –. Io ho allestito un tavolo con le sedie intorno di ogni paese per creare un esempio di parlamento culturale, ma più di questo non posso fare. Avevamo cominciato a riunirci in incontri internazionali, però quando arriva la guerra non si può che scappare. Bisognerebbe lavorare ormai a larga dimensione e poi capire se è possibile far nascere, in tutte le forme di governo, un minimo di sensibilità che permetta di non arrivare agli estremi, perché se manca questa piccolissima responsabilità si finisce per far saltare il mondo. L’arte deve infiltrarsi attraverso le vene della società per rendere possibile un ripensamento, sia pure all’ultimo momento.

La prossima settimana si inaugurerà una sua mostra a Milano dal titolo profetico: «La Pace Preventiva». Può spiegarci il significato?
La Pace Preventiva è nata con il Terzo Paradiso (secondo Pistoletto è la terza fase dell’umanità che si invera nella connessione armonica tra artificio e natura reinterpretando il segno matematico dell’infinito, ndr). Con la dichiarazione di guerra preventiva da parte di Bush e Blair all’Iraq, ho capito che il conflitto bellico è sempre il primo atto e la pace è una parola consolatoria, che necessariamente giunge dopo. Io voglio cambiare quest’ordine: non più guerra preventiva ma pace preventiva. Che impedisce l’avvento del conflitto, così come il labirinto deve contrastare l’arrivo del mostro.

 

SCHEDA

A Palazzo Reale va in scena la Pace Preventiva

Dal 23 marzo al 4 giugno, Michelangelo Pistoletto sarà protagonista anche della mostra-installazione milanese a Palazzo Reale dal titolo «La Pace Preventiva», pensata per la Sala delle Cariatidi. Promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale, Cittadellarte – Fondazione Pistoletto con Skira, la rassegna è curata da Fortunato D’Amico ed è parte di Milano Art Week (11-16 aprile 2023), manifestazione in collaborazione con Miart, che mette in rete le istituzioni pubbliche e le fondazioni private della città che si occupano di arte moderna e contemporanea.
Il Labirinto è il percorso della Pace Preventiva: l’installazione è il risultato del progressivo srotolarsi di cartoni ondulati disposti nell’ambiente espositivo in cui si aprono spazi che accolgono alcuni emblematici lavori realizzati dall’artista. È anche una traccia dell’itinerario di consapevolezza che gli ha consentito di concepire «l’arte al centro di una trasformazione responsabile della società». La mostra si estende con tre installazioni nel museo di Storia naturale, al Planetario e nell’Acquario civico.