Dentro l’esperienza antropologica di una affollata biblioteca
SCAFFALE «Leggere possedere vendere bruciare», di Antonio Franchini (Marsilio)
SCAFFALE «Leggere possedere vendere bruciare», di Antonio Franchini (Marsilio)
Alla libreria Rizzoli di Manhattan, qualche settimana fa, sentivo parlare Jonathan Galassi, grande traduttore di Montale e Leopardi, editor della «Paris Review» e direttore del prestigioso marchio letterario FSG, di come il suo favoleggiato mestiere di editore di fama sia talvolta per nulla glamour, non privo di ricorrenti madornali errori, addirittura imbarazzante quando i conti, nell’incalcolabile probabilismo che ogni professionista dell’intuito s’illude di saper navigare, non tornano. E di come tuttavia—lo diceva con l’incantevole disincanto di cui solo gli americani di una certa età sono capaci—bisognasse continuare a leggere manoscritti, a commissionare traduzioni, a pubblicare. Quell’elegante, eminentissimo guru delle bandelle d’oltreoceano ammaestrava noialtri italiani libreschi (si consumava appunto il primo festival di letteratura nostrana a New York) dall’iperuranio di un disperato ottimismo che, in quanto critico e lettore attorniato da scrittrici e scrittori persi quanto me nell’apprensione, mi tranquillizzò immediatamente, come il comando di un domatore nella tenda del circo.
PERCHÉ PREOCCUPARSI tanto, mi pareva ci dicesse, quando l’orlo della catastrofe è sempre stato il domicilio di codesto triviale, poetico, incongruamente invidiato numero acrobatico che chiamiamo ‘mercato editoriale’? Perché far finta che smetteremmo mai di abitarlo, che ne liberemmo le esotiche fiere per restituirle a una savana che non hanno mai conosciuto? Nella Ffp2 ho tirato, credo letteralmente, un sospiro di sollievo.
Lo stesso sospiro mi ha gonfiato il petto attraversando Leggere possedere vendere bruciare, l’ultimo libro di Antonio Franchini che Marsilio, inspiegabilmente, propone come raccolta di racconti (pp. 128, euro 15). Non lo è, ma si suppone evidentemente che la parola ‘saggi’ inquieti il pubblico di chi legge—e magari già ama le finzioni letterarie di Franchini, impegnato da trent’anni a mostrare, con zelo discreto, di esser capace di raccontare anche meglio di molti dei grandi narratori che ha seguìto come editore. Niente paura: i saggi, quelli veri (vedi Montaigne, vedi Woolf, vedi Ginzburg—Natalia o Carlo) sono quasi sempre più avvincenti, più personali, più rivelatori di massima parte dei racconti, veri o falsi che siano. Sono anche, molto spesso, scritti meglio, e di questo prodigioso libretto di Franchini bisogna innanzitutto dire che è scritto benissimo. È scritto in quel modo esatto, chiaro e tuttavia ricercato, che al contempo ti fa dimenticare di star leggendo e ti ricorda continuamente come solo leggendo si capiscano certe cose. Mi domando, senza ironia, chi abbia fatto l’editing di queste pagine, giacché immagino che un grande editor non possa editare sé medesimo.
NON È TUTTAVIA LO STILE, pur così terso e rasserenante in sé, ad avermi rincuorato nel pomeriggio che ho trascorso con questo libro. Leggendo Franchini, come ascoltando Galassi, è stata piuttosto l’autorevole malinconia (l’ottimismo della volontà?) a tranquillizzarmi. Perché, come sentenzia il protagonista del penultimo capitolo—forse l’unico che, in effetti, è un racconto—«’e libri, non è che nun se vendono mo’. ‘E libri nun se so’ venduti maie».
Sono molte, d’altronde, le figure oggidì un po’ oscure che la memoria letterarizzante di Franchini ci impedisce di dimenticare: Carlo Sgorlon, tra i romanzieri più premiati di sempre, e Raffaello Baldini, poeta impiegato incapace di ammansire le prose d’altri; il folletto Aldo Busi che battibecca allo Strega con la fattucchiera Rossana Ombres; filosofi pallosi ed editori svergognati; e poi Niccolò Gallo, fascinoso maestro in ombra del calibro di un Bobi Bazlen.
Al centro del libro si staglia un monumentale ritratto di Pietro Cheli, spietatamente innamorato, che restituisce l’arietta vintage di una società culturale di cui ho ora nostalgia senza averla mai conosciuta. Ma, da millennial che all’università si pagava le sigarette redigendo schede di romanzacci inediti, più che la storia umana dell’editoria testimoniatavi mi interessa, di questo libro, l’esperienza antropologica che offre: la possibilità d’immedesimarsi in quel «Lettore di dattiloscritti» che dà il titolo al secondo capitolo, ripescato dagli archivi di «Nuovi Argomenti», e contemplare, col distacco di un boomer leggendario, la simultanea inutilità e necessità, la miseria lirica, struggente senza averne l’aria, del mestiere di fare i libri.
Quest’esperienza illuminante, consigliata a chiunque si morda il pugno per il destino delle proprie ed altrui scritture (e letture), mi pare quasi più autentica della commozione che suscitano le prime dieci perfette pagine: un letterale corpo a corpo con la biblioteca paterna in cui Franchini, al vertice della sua eloquenza narrativa, è segretamente a colloquio con tutti gli umanisti (da Petrarca a Girolamo da Praga, da Machiavelli a Proust) che scambiavano la carta con la carne, i libri con le persone, la biblioteca—inclusi i libracci, titolari della stessa cittadinanza che vi godono classici e capolavori—con il sé.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento