Negli ultimi anni si è andata diffondendo una tendenza storiografica che con rigore e profondità tende a demistificare alcuni luoghi comuni sulle cosiddette «cose buone» messe in opera dal fascismo, dalle infrastrutture al welfare. In La natura del duce (Einaudi, pp. 162, euro 24) agile e innovativo volume di Marco Armiero, Roberta Biasillo e Wilko Graf von Hardenberg viene messo sotto la lente di ingrandimento il presunto ecologismo del regime, sezionando le opere e la narrazione della propaganda, mettendole alla prova delle fonti e arrivando alla conclusione che le relazioni socio-ecologiche proposte durante il Ventennio furono orientate a una manipolazione produttivista della natura e a un estrattivismo esasperato.

L’INTRODUZIONE mette subito le cose in chiaro: «Non ci interessa capire quanti ettari di territorio fossero riservati a parco o quanti alberi siano stati piantati durante il regime, non crediamo affatto che il fascismo si disinteressasse alla natura; ma l’alternativa al disinteresse non è come qualcuno sembra intendere una cura attenta della natura». Il regime, infatti, aveva «una visione della natura e un progetto per la sua trasformazione» che tra bonifiche, battaglie retoriche e bislacchi e dispendiosi esperimenti autarchici, avrebbe dovuto trasformare il paesaggio italiano (e non solo, come si vedrà) a immagine, uso e consumo dell’«uomo nuovo fascista».

Scorrendo le pagine del volume ci troviamo di fronte a una lunga serie di progetti e campagne, alcune portate a compimento – e oggi ancora persistenti nell’ambiente e nell’immaginario del Paese – altre naufragate o mai terminate, che dimostrano come il fascismo avesse a cuore non tanto la cura e la tutela dell’ambiente e nemmeno quella dei suoi abitanti genericamente intesi, ma la messa in produzione delle risorse secondo schemi solidamente capitalisti. Ed ecco iniziare un viaggio che dall’agro pontino, l’unico esperimento di bonifica portato a termine alterando in maniera permanente un esteso ecosistema, ci porta sui versanti montani, oggetto sì di riforestazione, ma a tutela dei bacini idroelettrici, nelle città e infine in Africa – in un riuscito esperimento di analisi intersezionale tra storia ambientale e storia del colonialismo.

IL NOSTALGICO luogo comune delle infrastrutture lasciate in Africa testimonia quanto la modernizzazione fascista sia passata attraverso violente forzature degli equilibri ambientali – per altro in molti casi già noti, come chiariscono le fonti proposte. Forzature mitopoietiche che produssero archetipi coloniali nazionali a uso e consumo della propaganda, ma anche e in misura assai maggiore, una moltitudine di «vite di scarto» tra i colonizzati in primis – sfruttati, internati e brutalizzati – e tra i nuovi abitanti spesso illusi dalla retorica del regime di poter mettere in produzione territori difficili per la frontiera tecnologica dell’epoca.

A VOLER TROVARE qualche nodo critico in un libro che segna comunque un nuovo percorso nella storia ambientale d’Italia, ci si potrebbe soffermare sull’ampio uso delle biografie (di Mussolini stesso, ma anche di nomi più o meno noti del regime e della colonizzazione) come fonte per tratteggiare la strategia socio-ecologica del tempo. In alcuni passaggi, come nel capitolo sulla tutela e i parchi nazionali, si sarebbe potuto ricorrere agli archivi dei parchi stessi che per quello d’Abruzzo e dello Stelvio sono finalmente riordinati e consultabili. Nel secondo caso, la documentazione avrebbe forse permesso un grado maggiore di approfondimento sulle ragioni della sua istituzione e sul rapporto con le comunità locali. Ben inteso, ciò non toglie nulla ad un volume che dimostra in maniera limpida quanto domesticazione e privatizzazione delle risorse siano state la cifra dell’ecologia politica del regime fascista.