Dentro la filosofia e il «tuca tuca», comunanze e congiunzioni
Indagini «Il tocco del toccare», di Jean-Luc Nancy e Francesca R. Recchia Luciani. Un libro a quattro mani, breve e denso per le edizioni genovesi de «il melangolo». Costruire legami, nella rivoluzione dei corpi tra visibilità e spettacolo
Indagini «Il tocco del toccare», di Jean-Luc Nancy e Francesca R. Recchia Luciani. Un libro a quattro mani, breve e denso per le edizioni genovesi de «il melangolo». Costruire legami, nella rivoluzione dei corpi tra visibilità e spettacolo
«Non esiste desiderio che non desideri toccare», afferma Jean-Luc Nancy ne Il tocco del toccare. Filosofia del Tuca tuca (il melangolo, pp. 96, euro 12), scritto con Francesca R. Recchia Luciani. Il tocco, nella epistemologia del filosofo, è ponte verso l’alterità desiderata e desiderante, in un dittico che già per William James rendeva due «oggetti» soggetti, perché esistenti l’uno per l’altro.
Dunque, in questa primaria semiologia pare ancor più significativo che il libro sia vergato a quattro mani: che i testi di Nancy e Recchia Luciani si «tocchino» l’uno l’altro nella successione della massa grafica, come due alterità che producono reciprocamente «l’esistenza in relazione all’altro» (così Ruggenini ne Il discorso dell’altro. Ermeneutica della differenza).
DEL RESTO, il «tocco» ricade sull’atto stesso della lettura, che «tocca» il testo con gli occhi: che cosa è infatti leggere se non uno «sfiorarsi»? Un dare reciprocamente corpo mentale all’altro? Lo stesso leggere è, si pensi alla etimologia latina e ancor prima greca, un legame/logos. È in questo senso che Francesca R. Recchia Luciani ne Il Tuca tuca: un inno per la rivoluzione sessuale parla di «ontologia aptica», cioè di una filosofia del tocco-legame come esistenza. Ma, attenzione, una esistenza non meramente «percettiva», secondo una fenomenologia del sentire l’alterità che parte da Lambert de Il Nuovo Organo (1764) per arrivare a Kilani Mondher de L’invenzione dell’altro; piuttosto un fenomeno storico-sociale, dove il tocco rintocca e attraversa interi campi del sapere sovvertendo la common opinion.
In tal senso magistrale è il concretarsi (in un gioco di fortunata sprezzatura delle frontiere sapienziali) della «rivoluzione dell’ombelico» di Raffaella Carrà, una «rivolta incarnata» che visibilizza l’espressione del sesso-femmina con il richiamo ad una generatività (l’ombelico come ordine del mondo) non meramente riproduttiva ma semiologicamente produttiva: il diritto all’espressione del corpo. Alla sua grammatica espressiva.
Intendiamoci: che questo corpo, attraverso il suo stesso essere visto da milioni di telespettatori dell’epoca, sia esso stesso capitalizzato, diventi prodotto, non vi è dubbio tanto che la studiosa parla di «ontologia economica dominante».
E VA RIBADITO come il corpo femminile, proprio a partire dagli anni ’70, da indicibile – forcluso alla narrazione – diverrà nel decennio successivo in-dicibile, interno al dire e per questo esposto, nelle sue funzioni voyeristiche, al commercio scopico (si pensi alla trasmissione Drive In).
Né va dimenticato (e l’autrice lo ricorda) come proprio nel 1970 fosse apparso sui muri di Roma «Il Manifesto di Rivolta femminile» che partiva dalle elaborazioni di Lonzi, Accardi e Banotti volte a s-velare il «soggetto imprevisto» per eccellenza: la donna. Sarà questo passaggio a dar vita ad una coalescenza dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, a cui tutti e tutte dobbiamo moltissimo.
Ma Recchia Luciani lega l’epifenomeno del Tuca tuca alla realtà che sorge dallo spettacolo (e non solo «nello spettacolo»), andando ad analizzare il rapporto fra realtà e immaginario, consumo solistico (da soli) e di massa (perché ubiquo). E, al tempo stesso, mentre indaga la relazione scivolosa fra corpo-capitale e corpo-rivoluzione, parla di «pseudo-trasgressione omologante» propria dell’iconomania, che rischia di flettersi in neo-ideologia del «Kitsch totalitario».
Insomma, questo petit livre è in realtà un continente. L’icona bivalve di Nancy e Recchia Luciani dà vita a una agogica (un movimento ascendente) che lambisce la fine del Novecento per interpellarci althusserianamente sull’oggi, sulla produzione-sostituzione (Ersatz) del mito che da sistema modellizzante si fa «consumo» di sé.
Infatti, se come affermava Barthes «il Mito sta sempre a destra», lo fa proprio in virtù del suo «normare» le funzioni di rappresentazione.
Ma nonostante queste funzioni, l’atto sovversivo resta eccedente. Così il Tuca tuca che si bilica «tra le alternative simboliche della condizione femminile»: perché si può «riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi. Senza perdersi e senza mettersi in salvo».
ECCO IL SENSO di quella che Recchia Luciani definisce «la rivoluzione ombelicale», che parte dall’òmphalos del materno teologale per sovvertirne il dominio. Un rivolgimento che libererà altri corpi, lambendo anche la rivoluzione Lgbtiq+, se è vero com’è vero (e chi scrive ne è testimone) che nei gay pride del XX secolo, appena le note del Tuca tuca si stagliavano nell’aria, il DJ urlava: «Tutti etero finché non parte la Carrà!».
È che il Tuca tuca ha toccato ogni corpo, singolo e molteplice e ha rilevato, nel tocco, quella coscienza che vi risiede e che lo rende esistente e resistente. E questo avviene proprio perché, come conclude Recchia Luciani, ha avuto «il potere di arrivare ovunque e ‘toccare’ chiunque».
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