Le migrazioni sono state governate in Italia come un’emergenza sin dagli anni ’80 del ‘900. Esse sono state storicamente associate dai governi e da ampie parti della politica e del mondo dell’informazione all’allarme sociale e all’eccezionalità. Questo modo di governare, oltre che definire, l’immigrazione è stato utile per trasformare il fenomeno in un moltiplicatore di paure e, quindi, di propaganda politica volta a rassicurare con parole d’ordine divenute sempre più aggressive, specie nell’ultimo ventennio, quali «difendere i confini nazionali», «lottare contro i clandestini», «prima gli italiani».

È CON QUESTO SIGNIFICATO che i governi, agendo da imprenditori politici del razzismo, hanno inteso l’immigrazione come un fatto politico, nel senso di renderla un oggetto utile a raccogliere voti, oltre che ad attirare verso di essa i risentimenti di una parte della popolazione nazionale cresciuti nella crisi permanente e nel regime di guerra vigente.

Il libro di Antonio Ciniero, Le politiche dell’esclusione. Centri di accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia, edito da Meltemi (pp. 180, euro 16), propone una critica di questo utilizzo strumentale dell’immigrazione, proponendo una presa di posizione – tanto intellettuale quanto metodologica – che riconosce le migrazioni come un fatto politico nel senso di «decidere da che parte stare», di scegliere «tra continuare a percorrere la strada di mortificazione dei diritti finora seguita o intraprendere un cammino diverso, che abbia come bussola l’essere umano, i suoi bisogni e i suoi diritti».

Ecco la sfida che pone l’autore, che insegna Sociologia delle migrazioni presso l’Università del Salento, alla politica e alla società italiana: bisogna continuare con le politiche di esclusione – documentate nei tre capitoli che danno forma al testo -, o riconoscere che ci sono alternative, in quanto, come recita l’ultimo paragrafo delle Conclusioni, «l’esclusione non è una condizione ineluttabile».

Per comprendere come l’esclusione sia un prodotto di specifiche politiche, il testo ripercorre la storia degli ultimi venti anni del sistema di accoglienza delle persone richiedenti asilo e rifugiate (primo capitolo), dei ghetti agricoli (secondo capitolo) e dei cosiddetti campi rom (terzo capitolo). Cosa hanno in comune queste realtà? Il fatto di avere contribuito, come viene spiegato nell’Introduzione, «a determinare forme di esclusione sociale, integrazione subalterna e inclusione differenziale di segmenti di popolazione definita migrante anche dopo decenni di permanenza nel nostro paese, così come accade ai discendenti nati e cresciuti in Italia».

SIAMO DI FRONTE a quello che lo studioso delle migrazioni Abdelmalek Sayad ha definito «l’illusione del provvisorio», il fatto di pensare e governare la presenza degli immigrati come una condizione di passaggio, da tollerare perché utile ma che, prima o poi, scomparirà, tornando nei paesi di immigrazione.

Questa illusione permette allo Stato e a chi lo governa di evitare politiche di cittadinanza – ad esempio per l’accesso alla casa – proprio perché si tratta di una presenza transitoria.

La realtà è, invece, diversa. Le esperienze di immigrazione tendono a stabilizzarsi, non solo sul piano delle esperienze individuali e familiari, ma anche su quello strutturale. È il caso dell’agricoltura, caratterizzata ormai da circa trenta anni per un terzo da manodopera immigrata, percentuale che per alcuni tipi di lavoro e in alcune aree geografiche diviene pari al cento per cento. Nonostante questa presenza centrale e consolidata, le politiche abitative che evitino le baracche autocostruite o i campi con i container della Protezione civile sono assenti: «gli interventi posti in essere dalle istituzioni locali, quando non sono state mere azioni di sgombero, hanno riguardato l’allestimento di foresterie o tendopoli, al posto (o accanto) agli insediamenti informali». Dunque, un insieme di soluzioni che «ripropongono la stessa logica che produce esclusione che è propria delle altre forme di accoglienza istituzionale, in particolare quella che in Italia si riscontra all’interno dei centri di prima accoglienza o dei cosiddetti campi rom».

UN INSIEME DI SOLUZIONI che contribuisce a produrre soggetti e lavoratori deboli, funzionale a quelle imprese che vivono di manodopera a buon mercato. La messa in discussione di queste politiche è, pertanto, non solo una critica di tali condizioni sociali, ma è parte di una più generale critica dell’economia politica delle migrazioni contemporanee.