Dentro la bottiglia niente
Verità nascoste La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
Verità nascoste La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
Di tutte le esperienze gustative, quella del vino è la più adatta a rappresentare metaforicamente l’esperienza erotica: la profondità, l’intensità e la complessità delle sensazioni, la finezza e l’eleganza dell’espressione, la persistenza del vissuto gradevole. Imparare a bere il vino potrebbe far parte di una buona educazione sentimentale (necessaria anche all’esperienza culturale, come leggere un libro o sentire la musica). Insegnerebbe a non annientare l’oggetto desiderato, usandolo come strumento di scarica, di bisogno, ma a rispettare la sua intrinseca natura, trasformando le proprie aspettative e attitudini in funzione delle rivelazioni, delle scoperte che ci dona.
Per chi l’ama, le notizie sul vino non sono buone. Se la qualità del prodotto è mediamente migliorata, lo è soprattutto sul piano di una uniformante gradevolezza o potenza. Il «carattere», l’originalità, la «territorialità» (la particolarità espressiva di un vino in funzione del suo territorio) si stanno appiattendo in modo innegabile. Contemporaneamente i prezzi dei vini più celebri hanno raggiunto vette impensabili. Al punto che, il più delle volte, non li bevono neppure coloro che, potendo permetterselo, li comprano. Preferiscono collezionarli perché il loro valore cresce a dismisura con gli anni che passano. Sennonché questi vini, ad eccezione di alcuni liquorosi di grande qualità, è improbabile che durino più di qualche decennio. Passata la loro fisiologica durata sono liquidi imbevibili. Ciò non toglie loro valore di mercato che continua a aumentare, mentre il loro valore d’uso si nullifica. A condizione che non vengano mai aperti, che restino nel loro sarcofago.
Il valore del vino come oggetto di collezione cresce con il venir meno della sua possibilità d’uso. Il vino è diventato opera d’arte, con la differenza che l’oggetto artistico vero e proprio aspira alla permanenza, il vino è, di fatto effimero. Mentre l’arte dell’effimero ha come suo obiettivo la desacralizzazione dell’atto creativo, la ribellione all’idealità, la pretesa che un prodotto di esistenza transitoria assurga all’eternità è il trionfo dell’idea sulla vita vera. Quello del vino è un collezionismo perverso.
Il collezionismo è legato all’idealizzazione dell’oggetto e all’identificazione narcisistica con esso. Collezionare oggetti (nelle raccolte private o pubbliche) non è di per sé una cosa negativa: fa parte di un amore proprio che aspira alla persistenza temporale dell’oggetto amato (nella moltitudine delle sue espressioni). Il collezionismo degenera se si dissocia dall’uso degli oggetti raccolti: l’elaborazione delle testimonianze del gusto, delle concezioni e delle passioni di un’epoca( civiltà), che consente l’appropriazione affettiva e ideativa delle trasformazioni e conferisce alla nostra esistenza un valore diacronico. Quando le raccolte degli oggetti sono un antidoto all’incapacità di far uso delle cose e godersene, il rapporto con l’eredità del passato (ciò che persistendo dà senso alla trasformazione) diventa puramente consolatorio.
Ciò che si usa (a livello sublimato o no) rientra nella varietà infinita dell’esperienza, dove la dispersione della cura e dell’attenzione danneggia il coinvolgimento e la soddisfazione. Quando si vive sul piano della consolazione, gli oggetti, non fatti per essere usati, sono indifferenziati, immobili. La loro moltiplicazione in forma di collezione (in realtà la ripetizione del medesimo), serve a produrre l’illusione di movimento. Il collezionismo nel suo estremo ferma la vita. Il simbolo perde il suo oggetto: l’idea del buon vino fagocita, distrugge il vino stesso.
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