«Cosa può esserci di più insopportabile del non trovare ciò che cerchi convinto come sei che ciò che cerchi è certamente là dove dovrebbe essere? È ciò che mi sono domandato dopo ore di interminabile ricerca di una palla finita al di là di una rete, qualche tempo fa, durante una partita con i miei amici».

Comincia così La tesina di S.V., il romanzo che segna il ritorno di Alberto Capitta dopo cinque anni di silenzio. Lo pubblica Il Maestrale (pp. 304, euro 20), la casa editrice di Nuoro che nella sua collana di narrativa ha titoli di Maria Giacobbe, Marcello Fois, Salvatore Niffoi, Giulio Angioni, Giorgio Todde e di Savina Dolores Massa. Con il suo testo di esordio, Creaturine, uscito sempre con Il Maestrale nel 2004, Capitta è entrato nella dozzina dei finalisti dello Strega e nel 2006 Lo Straniero, la rivista diretta da Goffredo Fofi, gli ha assegnato il premio come migliore narratore. Nel 2013 il suo Alberi erranti e naufraghi si è aggiudicato il Premio Brancati ed è stato scelto dagli ascoltatori di Fahrenheit, il programma di Rai Radiotre, come libro dell’anno.

UNA COSTANTE della narrativa di Capitta è l’attenzione verso l’adolescenza, verso la linea d’ombra, il passaggio periglioso, aperto a esiti differenti, segnato da un rapporto non di rado drammatico con il mondo degli adulti, in contrasto con un principio di realtà che chiude la vita dentro gabbie senza più uscita. E anche il protagonista del nuovo romanzo è un adolescente.

S.V. (altro non ci viene detto di lui se non le iniziali del nome) è un liceale che, giunto all’esame di maturità, prepara la sua tesina e la legge davanti al professore di lettere e alla classe intera. Durante una partita di calcio tra amici – racconta la tesina – per un tiro sbagliato la palla finisce oltre la rete che delimita il campo di gioco. Il ragazzo protagonista del racconto di S.V. oltrepassa il reticolato per andare a recuperarla. Da lì comincia il suo viaggio nella «terra dei perduti», «quelli che tutti disperatamente cercano, invocati dalle madri, pianti in segreto dai padri».

LA PALLA SVANISCE NEL NULLA, si mostra a tratti per poi sparire. Inseguendola invano il ragazzo approda in luoghi favolosi fuori dal tempo e dallo spazio, fuori dalla realtà che dall’altra parte della rete scavalcata modula la vita nella sua normalità, nei suoi percorsi stabiliti. Prima una vallata nascosta, un meraviglioso giardino dove il ragazzo vive solitario in un vecchio vagone ferroviario abbandonato su un binario morto, poi il Bar di Passaggio, luogo incantato popolato solamente di asini, poi ancora la Casa del pescatore, confine estremo di terre incantate che apre alla tappa definitiva, quella che conduce al Rifugio degli Amanti.

Nell’universo oltre la rete che il ragazzo percorre, nel «paese dei dispersi» dove è arrivato per un tiro sbagliato su un campetto di calcio, il mondo lasciato per andare a riprendere una palla è perso per sempre: «Non essere mai più ritrovato. Questo era ciò che volevo. Quell’idea mi stava camminando dentro da sempre. Di me non sarebbero rimaste che poche insignificanti tracce. Di me non avrebbero trovato altro che assenza». Superare la rete è stato passare un confine, è stato approdare in un luogo dove vale un altro ordine simbolico, la «lingua della lontananza, la lingua dei dispersi senza speranza, la nuda lingua che non conosce salvezza, che non contempla redenzione». Alla fine resta solamente il vuoto. L’adolescente raccontato da S.V. non ha altro da dire, non ha altro da indicare che la sua assenza, il suo essere svanito nel nulla alla ricerca di una palla che non ha trovato dove avrebbe dovuto essere.

Niente lo riporterà più indietro: «Qualcuno saprà come chiamarmi, ma non avrò da offrire altro che la mia assenza senza nome. È il gioco triste degli esseri umani. Si dà del tu alle ombre, si aspettano risposte dalle stanze vuote».
In un falso movimento che non conduce ad altro se non a un’irreparabile perdita, ancora una volta Capitta ci conduce in territori fantastici dove Ariosto e Verne, Mark Twain e Holderlin (non casualmente citati nel testo) ci ricordano che la scrittura è un gioco crudele. Un gioco a somma zero che mai salverà dal dolore.