Nella sala dove si è esibita in un monologo-performance, Manifesto Transpofagico – nell’ambito di Short Theatre, Renata Carvalho, attrice e regista brasiliana, la libertà si è fatta enorme, ha scavato buchi nella superficie del reale, per portarci nella storia dei “travesti” in America Latina. Racconto di storia collettiva e di personale, del loro intrecciarsi su corpi da costruire di continuo per dar vita a soggettività aderenti a un sentire non catalogabile. E’molto bello l’elenco di aggettivi che Carvalho scandisce per indicare le epoche di questo parto continuo. Corpo che arriva sempre prima. Corpo guardato (lo scandalo della non binarietà). Corpo politicizzato (le lotte per assomigliarsi, quelle per non nascondersi). Corpo pornografico (il mestiere di strada per sopravvivere). Corpo medicalizzato (l’arrivo dell’Aids). Corpo violato (le cariche della polizia, le intolleranze all’universo ‘altro’). Lo spettacolo si incarna nella sua nudità raccontata. Il silicone industriale degli anni ’80, la tortura delle iniezioni casalinghe, trenta giorni distese su una panca per evitare che il materiale si propagasse dal seno, dai fianchi al resto del corpo, l’avvento della chirurgia estetica, tagliarsi per non essere arrestate facendo del contagio hiv un’arma di difesa. Mondi che non riescono ad essere pronunciati senza dolore. Il pubblico viene interrogato perché lo scopo della Carvalho è di smascherare quello che non riusciamo a dirci. Sappiamo cosa significa cisgender? Crediamo ancora nell’automatismo dell’identità di genere? Siamo pronti a dire “travesti” pensando a una festa e non a una condanna?