Catherine Tramell ha trovato il suo match. Quasi venticinque anni dopo Basic Instinct, Paul Verhoeven, ci regala un’erede degna della gelida bionda forse serial killer che, con un lieve movimento delle ginocchia, sedusse per sempre Michael Douglas e il pubblico dei multiplex. Per il suo primo film francese (il produttore di origine tunisina è Said Ben Said, che ha già lavorato con Cronenberg, Polanski, De Palma e ha prodotto il nuovo film di Walter Hill, The Assignement) Verhoeven sceglie un temerario, originalissimo, registro che contamina la farsa, il thriller psicologico e l’exploitation. Straordinaria complice del settantasettenne regista olandese è una delle attrici predilette di Claude Chabrol, i cui densi interni borghesi sono evocati in questo film. Il primo lavoro di Verhoeven da dieci anni a questa parte e il suo più meravigliosamente diabolico, dopo la presentazione a Cannes 2016 (dove era inspiegabilmente «nascosto» l’ultimo giorno di festival) Elle (in uscita il 23 marzo) ha vinto il Cesar di miglior film dell’anno e portato Isabelle Huppert a sfiorare il suo primo Oscar.

Alla faccia del cinema della «crudeltà di buon gusto» che ha fatto la fortuna di beniamini di Cannes, come Michael Haneke, Elle apre su quelle che sembrano le urla di piacere di un uomo e una donna, fino a che un lento movimento di macchina, attraverso la casa elegante, ci rivela che si tratta di uno stupro. Quanto il suo assalitore mascherato di nero se ne va, la donna sul pavimento appare più perplessa che terrorizzata. Invece di precipitarsi a chiamare la polizia fa un bagno. E quando una macchia rossa affiora nella schiuma candida nella vasca in cui giace immersa, la spazza via con una mano, come un pensiero importuno.

È Michéle Leblanc (Huppert), temuta presidente di una compagnia di videogames molto violenti, divorziata da un signore più molle di lei, e figlia di un serial killer, chiuso in prigione da quarant’anni, dopo aver sterminato e dato fuoco una ventina di vicini di casa. Michele quella notte se la ricorda ancora –l’immagine di una ragazzina con il volto scioccato, in una nuvola di fumo, ci rimanda al bimbo con il costumino da Pierrot e il coltello grondante di sangue in Halloween. Fortunatamente, Michéle non si è trasformata in Michael Meyers. Anzi, ha fatto carriera e messo su famiglia. Ma scrollarsi quell’eredità di sangue non è stato facile. Quindi oggi preferisce starsene alla larga da polizia e da eventuali caroselli dei media, spiega all’ex marito e agli amici con cui sta cenando, dopo aver casualmente annunciato di essere stata violentata. «Ordiniamo?», conclude Michéle. «Forse è meglio che aspetti qualche minuto per stappare lo champagne», dice uno dei commensali al cameriere attonito.

«Non male, vero?» Michele sdrammatizza di nuovo, sorridendo, in un’altra scena, dopo aver condiviso con un vicino di casa il racconto di un episodio violento della sua infanzia. Tratto dal romanzo di Philppe Djan, e sceneggiato da David Birke (che ha scritto film sui serial killer Jeffrey Dahmer e William Gacy) il film era inizialmente ambientato negli Usa (dove Verhoeven non girava dai tempi di L’uomo senza ombra) ma –ha detto il regista- nessuna attrice hollywoodiana ha accettato la parte. Forse è stata una fortuna, perché Huppert è in sintonia totale con l’irriverenza del suo regista. Da tempo non la si vedeva divertirsi così. Al punto che, ogni tanto, Verhoeven lascia che la macchina indugi un attimo in più del necessario sul suo volto – aspettando il sorriso.

Il film tratteggia con gesti sicuri, netti, il quadro di un’esistenza benestante, al cui centro Michéle è l’enigmatica, controllatissima, figura di potere – alle prese con un figlio succube di una giovane arpia che gli ha dato un bimbo con la pelle dal colore diverso dal loro; con la nuova fidanzata dal marito che è giovane e bella e insegna yoga; con una madre che vuole sposare l’ennesimo gigolò…Al lavoro c’è un nerd che la ama, uno che la odia e qualcuno che ha perversamente inserito il suo volto in una trucida scena di videogame.

Lei gestisce tutto con aplomb perfetto, avvolta di un mistero che ricorda quello di Kim Novak in Una strega in paradiso, come il gatto nero che le fa compagnia– quasi una caricatura del sogno delle donne che vogliono avere tutto: successo al lavoro, famiglia, e anche divertirsi. Per quello, Michéle ha una relazione sporadica con il marito della sua migliore amica. Intravediamo qualche scintilla – sguardi fuggenti, il piede avvolto di una calza nera che si struscia contro le sue gambe sotto il tavolo- anche con il vicino gentile, che ha una moglie religiosissima.

Ma c’è quell’ombra nera dello stupratore che non riesce a scrollarsi di dosso….Verhoeven suggerisce una delle più indigeribili fantasie segrete che si possano immaginare. Perché il suo è un film sul mistero del desiderio ma anche sulle cicatrici della vita.