I ritratti iconici di Bob Marley, dei Sex Pistols e di Marianne Faithfull vanno al di là del tempo e sono certamente tra le foto più note di Dennis Morris (1960), ma nello sguardo del fotografo britannico di origine giamaicana c’è anche tutto un mondo di gesti comuni e incontri quotidiani che è alla base della sua narrazione della comunità a cui appartiene e che inizia a fotografare all’età di 9 anni. Due anni dopo pubblicherà le sue prime foto sul Daily Mirror. A Dalston, East London era conosciuto come «Mad Dennis» proprio per il suo interesse per le cose apparentemente banali. Successivamente raccolte nella serie Growing Up Black, queste foto degli anni ’70 sono un manifesto politico delle disuguaglianze sociali e razziali della comunità nera britannica di cui Morris mostra anche l’orgoglio, la bellezza, la forza, la vitalità. La serie, acquisita anche dal V&A Museum di Londra nell’ambito del progetto Staying Power in partnership con i Black Cultural Archives (è anche nelle collezioni della Tate Britain e della National Portrait Gallery) è esposta nel circuito dell’undicesima edizione dal titolo Border di Kyotographie, festival internazionale (visitabile fino al 14 maggio), ideato e diretto a Kyoto da Lucille Reyboz e Yusuke Nakanishi.

Le pareti rosse della galleria Sekaisoko che ospita la mostra Colored Black (a cura di Isabelle Chalard) s’illuminano di storie da leggere in profondità, strato per strato. Un messaggio che è esplicito nella foto dello slogan «Free all political prisoners now». Un’immersione nel passato la ricostruzione di un tipico salotto come quello dove il fotografo è cresciuto, quando bambino arrivò nel Regno Unito dalla Giamaica con sua madre, circondato da oggetti vintage: l’apparecchio telefonico, la radio, il centrino sulla poltrona, i ninnoli sulla credenza e anche la sedia davanti al telo bianco che funge da fondale. Tra le foto incorniciate c’è anche Mother’s Pride, Hackney (1976), un’immagine intensa che esprime l’orgoglio «domestico» di una mamma nera con i suoi due figli all’interno di una tipica casa britannica ordinata e pulita. Una sfida importante, considerando che all’epoca i proprietari appendevano fuori dalle case il cartello «stanze in affitto, niente neri, niente irlandesi, niente cani».

Dennis Morris (foto di Manuela De Leonardis)

«Colored Black» è più di una documentazione fotografica.
Sono foto che ho realizzato da bambino fino alla fine degli anni ’70, rappresentano la mia comunità. Sono cresciuto a Dalston, nel distretto londinese Hackney. Immagini che oggi sono riconosciute come la più completa documentazione delle popolazioni delle Indie Occidentali nell’East London. A 9 anni sono entrato per la prima volta in una camera oscura e da quel momento ho sentito che quell’incontro magico sarebbe stato la mia vita.

Quando ha capito che al di là della documentazione potevano esserci molti altri livelli di lettura dell’immagine?
Donald Paterson che aveva una ditta fotografica, ed era il responsabile del laboratorio fotografico per i ragazzi del coro della Chiesa di St. Marks di cui facevo parte, è stata la persona che mi ha insegnato a fotografare, instillando in me l’importanza di questa arte. Aveva riconosciuto la mia abilità e mi incoraggiò a portarla avanti professionalmente. L’ho ascoltato e non ho più smesso.

Ha realizzato fotografie di grande forza prevalentemente in bianco e nero. Questo linguaggio ha un significato preciso per lei?
All’epoca il bianco e nero era più economico. La pellicola a colori era costosa e anche il processo di stampa. Avevo imparato a sviluppare e stampavo in bianco e nero da solo, nella mia stanzetta trasformata in camera oscura. Molte riviste, poi, pubblicavano solo immagini in bianco e nero. È negli anni ’80 che il colore è diventato la norma.

In questo momento parliamo seduti su un divano in un ambiente dal sapore domestico: una memoria nostalgica?
Ho ricreato il tipico salotto dei West Indian con lo stesso tipo di mobili dell’epoca, la radio, i ritratti dei familiari alle pareti. Uno sguardo dall’interno di com’era la vita. Le fotografie in mostra ne sono la testimonianza, ma quando si entra in questa stanza l’atmosfera è vibrante. Inoltre è proprio com’era nella realtà, una stanza veramente molto piccola.

La fotografia è stata anche uno strumento politico?
Era l’epoca della guerra in Vietnam, la televisione non era ancora così forte e proprio grazie alle foto sui quotidiani e sulle riviste il pubblico ha potuto vedere l’orrore che si stava compiendo e aveva manifestato perché potesse finire. Ero molto interessato a Gordon Parks, il primo fotografo nero a realizzare un lavoro su Life Magazine e ai suoi film come Shaft e Super Fly. Sono stato influenzato anche da altri, tra cui Don McCullin, Robert Capa e anche Cartier-Bresson. Ero ossessionato dalla macchina fotografica e dall’uso delle immagini e volevo far parte di quel mondo.

Quindi aveva sempre con sé la macchina fotografica e scattava costantemente.
Facevo come Cartier-Bresson. Mi guardavo intorno alla ricerca di immagini. Mi muovevo in maniera randomica ma c’erano anche dei lavori che erano influenzati dal Black Power Movement che conoscevo attraverso riviste come Ebony.

La musica è un’altra sua passione, ha fotografato i più grandi musicisti di tutti i tempi. Ha avuto un rapporto privilegiato?
La persona a cui sono stato più legato è Bob Marley. È stato lui a dirmi che dovevo aver fiducia nel mio lavoro di fotografo. Avere uno stretto contatto con lui mi ha permesso di realizzare le sue foto più iconiche. Uscito da scuola, attesi il suo arrivo per il soundcheck del tour Exodus a Margaret Street. In quel momento è cominciata la mia carriera di fotografo musicale. Marley mi invitò a seguirlo per riprendere la tournée. Tornai a casa, feci i bagagli e saltai su quel bus.